GIANLUCA IOVINE | What, if…? E se lo facessimo davvero…? Devono aver pensato questo, i cinque cattivi ragazzi della discografia italiana, quando tra la fine degli anni Sessanta e i primissimi Settanta decisero di capovolgere tutto.
Era il 1969, e Giancarlo Bigazzi, Alfredo Cerruti, Elio Gariboldi, Daniele Pace e Totò Savio, pensarono che era venuto il tempo di dire basta.
Basta alle riunioni per il nuovo disco dei Pooh, alle canzoni scritte per Sanremo, alle difficoltà di venir fuori con una band appena più nuova delle altre.
Basta con il successo, con i soldi da buttare via al gioco, con i paparazzi e il lavoro serio.
Bisognava scardinare di notte quella stessa industria che li arricchiva di giorno, e i cinque talenti della musica decisero di diventare clandestini, dissacranti, terribilmente divertenti.
Ci vollero due anni per quel disco con una città-donna in fiamme e un cavalluccio a dondolo disegnato male: era nato Troia, il primo LP.
E anche se non se ne era accorto nessuno o quasi, il terremoto era iniziato. Con la sola voce di Cerruti e la leggendaria erre di Pace, Gli Squallor usavano grandi capacità manageriali, autoriali e compositive solo per il gusto di fare terrorismo artistico.
Non c’era molto senso, se non appunto distruggere, privandola di senso, la “forma canzone”. Tutto fatto in anonimato, senza provare troppo. In sala Savio provava ad arrangiare, Bigazzi componeva e aggiungeva i testi, insieme a Pace. E tutta quella fatica passava poi per la voce di Cerruti, che trasformava in beffa il minimo sprazzo di logica. Errori, battute, versacci diventavano musica rubando musiche di successo ma a volte creando cose nuove, che entravano in mente insieme a un carico di battute da caserma. Musica clandestina, registrata su cassetta tra amici, che passava sottotraccia, svergognata di giorno e idolatrata di notte, messa anche in autoradio per provocare la ragazza di una notte e farla ammettere che in fondo sì, erano sporchi ma troppo divertenti.
Anche quando le canzoni sembravano vere, erano blasfeme perchè accostavano il quotidiano al tabù, con titoli che a modo loro indagavano: Perchè se O tiempo se ne va, ricantata da Raiz degli Almamegretta, e il sax insinuante di Cornutone erano destinate al successo, con pezzi crepuscolari come Mi ha rovinato il ’68 o USA for Italy la satira sociale e il nichilismo cedevano alla riflessione, mai del tutto cancellata dalle maleparole. Anche le vicende più assurde, come la hit parade ecclesiale di Fragolone DJ, la parodia indianometropolitana di Arrapaho o il papa pigro, verace tifoso del Napoli di Gennarino I in fondo, sembrano oggi pure distopie, se non reali almeno realistiche in un tempo futuro.
L’intuizione di prendere il talking alla Guccini, esasperandolo come nella lugubre, esilarante telecronaca di Tutto il morto minuto per minuto, e sempre più esplicito disco dopo disco, porta a definire questo particolare genere del demenziale come una vera operazione di guerrilla music della volgarità. Le parolacce e il sesso, l’omofobia e il maschilismo, oltre a sottolineare il disimpegno del gruppo, lo pongono dagli albori fino alle ultime incisioni, del 1994, in opposizione radicale al politicamente corretto del tempo. E se nei Settanta Girl Power e prime aperture all’omosessualità, uso del linguaggio forte nel cinema e nel teatro politico sembravano rivoluzione, il revanscismo per gioco degli Squallor opponeva la sua satira indigesta, machista, folle.
Un gioco che, almeno fino al 1985, fece uscire dalla sala d’incisione cose serie, concept album molto più pensati di quanto potesse sembrare. Una spontaneità persa negli anni anche per volontà di quella stessa industria che in un primo tempo gli Squallor sembravano aver voluto combattere.
Le parolacce vendevano, diventavano film trash prodotti da Ciro Ippolito e tic di costume. Dischi ormai reclamizzati sulle tv di quello stesso Berlusconi sfottuto su vinile, insieme a nomi della politica, della Chiesa, della tv private, del potere. Una parabola sopravvissuta ai suoi stessi interpreti, che hanno lasciato a migliaia di affezionati l’eredità di una follia lucida degna di Artaud, capace di reinventare o spegnere il linguaggio, contaminando mondi, fino a tingere la società di superficie con l’energia violenta delle periferie, in un gioco di specchi tra Napoli e Milano che, usando napoletanità, comicità e nonsense, ha saputo destrutturare e ricomporre la società.
A distanza di cinquant’anni, ora che anche il fondatore, Alfredo Cerruti, ex amore di Mina e mente e voce del gruppo, è andato via, gli Squallor restano un buco nero pericoloso e affascinante: antimateria musicale complicata da maneggiare, perchè ancora bollente nella capacità eversiva del linguaggio. Pezzi indifendibili e per questo ancora freschi, come certe sfuriate di lavandaie di Basile o un carme rabbioso e vietato di Catullo. Sfuggenti, gli Squallor, assurdi e vivi come Beckett. Incomprensibili e teneri come Bene, chè a parlarne sul serio ancora temi una pernacchia di Pierpaolo, il ragazzino viziato e arrogante che ricattava suo padre, o l’incompetenza assassina del Dottor Palmito.
Gli Squallor, vero gas esilarante e venefico per la canzone italiana nazionalpopolare, hanno ucciso lo status quo prometeicamente, mostrando un’alternativa all’esistente e alla noia del vivere, come solo i veri anarchici e rivoluzionari sanno fare.
Nessuna certezza, nessun riparo, nessuna ideologia. Solo poche fisse: la morte da irridere, il sesso a cui aggrapparsi, esaltandolo e fustigandolo come neanche De Sade.
Forse è proprio vero: oggi si ha paura a stare vicini e si è obbligati a tenere una maschera per non morire di virus.
Era meglio quando c’erano gli Squallor.