GIORGIO FRANCHI | La bellezza dei cimiteri: il gusto di perdersi tra lapidi di sconosciuti, in balia di un istintivo brivido di fronte all’ultimo ricordo di esistenze ormai inconoscibili, alla ritualità con cui ciò avviene da millenni, a ciò che di meglio ha potuto fare l’umanità nell’arredare il confine tra la vita e l’inconoscibile nulla. Alcuni cimiteri sono veri e propri musei all’aria aperta: il Monumentale è stato al centro di varie iniziative di fondazioni culturali lombarde, venendo addirittura designato dai Rimini Protokoll come inizio della camminata Remote Milano (qui la recensione di PAC firmata da Elena Scolari). La scrittrice e regista Valeria Paniccia racconta nel suo libro Passeggiate nei prati dell’eternità (2013, ed. Mursia) il suo viaggio tra questo e altri campisanti in Italia e nel mondo, con chi conosceva gli “ospiti” più illustri a guidarla: tra questi, Toni Servillo, Massimo Cacciari, José Saramago, Margherita Hack.
In un anno in cui la morte ha assediato l’espressione umana, dalla cronaca alle chiacchiere tra amici, è quasi impossibile ritrovare il fascino di un’esperienza simile. Ci sembra di riconoscere sempre un volto dietro a ogni lapide, un familiare in lacrime vicino a ogni sepolcro. L’incanto dell’ignoto svanisce, proprio perché ormai l’ignoto non è più tale. Dove ritrovare, quindi, quella vibrazione che si ha quando si guarda a qualcosa che ha smesso di essere? Specie ora che i musei (soluzione ancora precaria, proprio perché esaltatrice della vita: non si dice che un artista, con la sua opera, diviene immortale?) sono chiusi dal decreto.
La mia personalissima soluzione è il dizionario. Specie se avete la fortuna di averne uno ben ingiallito, con le sue due belle dita di polvere sopra. Se il Monumentale è chiuso, i meneghini possono osservare le lapidi del Cherubini, storico vocabolario italiano-milanese edito per la prima volta nel 1814 e disponibile anche online. Una tomba finemente realizzata e curata nei minimi dettagli, seppur un po’ kitsch, conserva le spoglie di una tintiminia, termine ormai defunto per dire “smorfiosa”. Poco più in là, un monumento alla lughèra, sintesi per la scintilla che parte dalla legna ardente, spentasi assieme all’ultimo camino della città. In mezzo ai fiori, una spilla: i lughèra erano infatti gli sbirri nel gergo della Ligera, la malavita milanese della prima metà del ‘900 scritta da Simonetta e cantata da Gaber.
Viene da chiedersi quali siano le parole che ci hanno lasciato nel 2020. Si parla spesso di quelle che sono nate, forse per il tabù della morte della nostra società, rafforzato ancor di più dal comune accordo di accogliere i prossimi dodici mesi come l’anno della rinascita. Ma se c’è un anno che merita un bollettino di guerra per le parole, quello è proprio il 2020, che pure di bollettini non ne poteva più. La buona notizia, tuttavia, è che la maggior parte di loro sono tra le parole più cacofoniche, irritanti e pretenziose che la lingua italiana ricordi. Insomma, non mancheranno a nessuno.
Partiamo da resilienza, un vero e proprio trapano situato ad altezza timpano, pronto ad azionarsi a ogni panegirico dei finti self-made-man ammassati negli yacht club. Il termine dovrebbe indicare la capacità di rialzarsi dopo un evento traumatico o una sconfitta: nulla di più consono all’era post covid, non fosse che viene spesso e volentieri interpretato come un invito all’azione sempre e comunque. Il 2020 ci ha invece spinti ad aspettare e riflettere: chi aveva fretta ha pagato con la frustrazione, nella migliore delle ipotesi.
Addio a impiattamento, leitmotiv dei programmi di cucina che ha reso un obbligo disegnare arabeschi di salsa anche per i bastoncini di pesce. Ne dà il non troppo triste annuncio la Grande Crisi del Lievito, che durante il primo lockdown ha visto Nonna Graziella prendere a calci quella tintiminia di Cracco.
Ci saluta anche serendipità, anzi, serendipity, che con la ipsilon fa più figo in ottica della trinità team building – self improvement – life coaching. L’esempio per eccellenza addotto finora è la penicillina, scoperta per caso da Fleming: il vaccino del covid, invece, è stato rincorso per mesi da tutto il mondo.
Ci lascia anche smart, di cui sopravvive solo l’erede sposato con working: epilogo di un’era in cui la parola, come il suo omonimo su quattro ruote nei parcheggi, si trovava ovunque ci fosse uno spazio anche millimetrico (smart eating, smart city, persino smart bomb, come se un’arma di distruzione di massa potesse avere più cervello di chi ne invoca l’uso).
Il necrologio si chiude con l’esplosione, foriera di vittime lessicali, del fenomeno della ginnastica domestica, dopo la chiusura delle palestre. A casa abbiamo fatto le flessioni invece dei push-up, gli addominali invece dei crunch, il riscaldamento e non lo stretching. Nessuno ha parlato di fitness goal, well-being, circuit training. Ma, soprattutto, è stata estirpata la gramigna del gergo delle palestre: funzionale. Allenamento funzionale, riscaldamento funzionale, programma funzionale, obiettivo funzionale: e adesso, un atteso, funzionale silenzio.
Rimangono ancora i più duri a morire: uno su tutti l’odioso storytelling, termine lusinghiero per un diktat che impedisce all’autore di creare mondi e toglie al fruitore il diritto di esplorarli, a favore di una narrazione a binario unico con i finestrini oscurati. La lista è ancora lunga. Se le palestre chiuse e altri mesi di lockdown all’orizzonte impediscono di inseguire i propositi tradizionali, fatti di chili da perdere e abitudini da smettere, dall’uno gennaio occupiamoci di organizzare una resistenza linguistica e culturale.
E stavolta, facciamo una carneficina.