ELENA SCOLARI | Dare corpo, scenico, a un personaggio che il corpo non ce l’ha. A qualcuno che non c’è. Una sfida stimolante perché paradossale. Italo Calvino ha inventato un mezzo visconte e anche un barone che sia arrampica su un albero e decide di non scenderne più, ma l’ultima storia che chiude la nota trilogia alimenta ancor più l’immaginazione del lettore: Il cavaliere inesistente (1959) è, tra i tre romanzi, il più metafisico, il più filosofico, il più profondo proprio perché intangibile, sfuggente.
«Sotto le rosse mura di Parigi era schierato l’esercito di Francia. Carlo Magno doveva passare in rassegna i paladini». Un incipit cinematografico che entra subito in un favoloso contrasto “visivo” quando il re arriva da «Agilulfo Emo Bertrandino dei Guildiverni degli altri di Corbentraz e Sura, cavaliere di Selimpia Citeriore e Fez»:

“Cavaliere, perché non alzate la celata e mostrate il viso al vostro re?”
“Perché io non esisto, sire”
“Oh bella, e come fate a prestar servizio?”
“Con la forza di volontà”.

Uno scambio ineguagliabile, che dice quanto lo spirito di una persona, l’essenza, il ricordo che ne avremo, possano non stare nel corpo. Agilulfo vive e si fa presente al mondo grazie a un’armatura completamente bianca, con “solo una righina nera che corre torno torno il bordo”, come la linea di un fumetto, un segno che disegna una sagoma, un confine tra ciò che è e ciò che non è. O non appare.

Jacob Olesen è un attore che, invece, si caratterizza profondamente per l’uso del corpo, per la maestria di movimento conseguita alla Clownskolan di Stoccolma e poi perfezionata all’École Jacques Lecoq di Parigi. Un attore svedese che ha girato l’Italia in lungo e in largo per decenni con il fortunatissimo duo Donati&Olesen, la ditta teatrale che ha fatto piangere dal ridere migliaia di spettatori con gioielli come Buonanotte brivido, Radio Garage Rock, Per colpa di Bacco

Foto Andrea Macchia

Olesen parla italiano, francese, inglese, tedesco, danese e svedese, questo e la sua bravura gli hanno permesso di recitare in tutta Europa, in Nord Africa, Sud America, Asia. Da alcuni anni affianca i lavori con Giorgio Donati a spettacoli da solista come Bohumil (da Ho servito il re d’Inghilterra di Bohumil Hrabal) e Primo (da Se questo è un uomo di Primo Levi).
Il suo Cavaliere inesistente è inserito nel progetto che Fondazione Cirko Vertigo ha ideato per mantenersi in attività nonostante la sciagurata chiusura dei teatri: la stagione teatrale SOLO IN TEATRO, a cura della regista e coreografa Caterina Mochi Sismondi si sviluppa negli spazi del Teatro Cafè Müller di Torino. Gli spettacoli della stagione sono visibili su niceplatform.eu. A ogni artista è stato chiesto di presentare una creazione di venti/trenta minuti di un proprio solo, preceduto da un docufilm composto da riprese del dietro le quinte e interviste, trasmessi in streaming prima dello spettacolo e che rimangono fruibili on-demand.
Abbiamo assistito alla serata dedicata a Jacob Olesen e poi lo abbiamo intervistato.

Partiamo dall’epilogo: la trasmissione si è conclusa appena Agilulfo ha scorto le morbide forme di Bradamante sul declivio della collina, che diabolico stratagemma lasciare lo spettatore a metà racconto!

Sì, capisco la frustrazione! Ma il progetto è costruito così: un’intervista/documentario, una specie di antologia sull’artista e poi metà dello spettacolo. È un modo per far entrare lo spettatore nel lavoro, per incuriosirlo e indurlo a venire a vedermi a teatro per lo spettacolo intero.

Lo spettacolo è dunque pronto in forma completa?

Sì, e non vedo l’ora di farlo! Non è tutto il Cavaliere inesistente, è la parte che per me è più significativa. Ho dovuto tagliare con forbici e bisturi e sacrificare anche qualche personaggio, sono troppi! So di dare una delusione ma ho dovuto togliere Gurdulù, per esempio. So benissimo che è l’alter ego del cavaliere, ed è fondamentale per il racconto scritto ma teatralmente avrebbe richiesto un grado di complicazione eccessivo.

Nel libro il cavaliere sa di non esistere mentre Gurdulù esiste ma è come se non ne fosse cosciente, nella sua vacuità. Tu sei visibile in scena mentre interpreti qualcuno che non c’è, qualcuno che vive solo del proprio involucro, l’armatura. Come hai affrontato questo paradosso? 

Il metodo con il quale mi sono formato (il metodo Feldenkreis) mi ha insegnato che si può arrivare all’intelletto tramite il corpo, quando sei perfettamente consapevole della tua fisicità e del senso dei tuoi movimenti allora puoi giocare con qualsiasi tipo di personaggio.
In questo spettacolo è come se si vedesse solo la corazza di Agilulfo, e io mi muovo come una corazza si potrebbe muovere: leggermente robotico e come se camminassi con gli scarponi da sci. Ho cercato di trasferire il concetto di inesistenza con un particolare tipo di movenza. Agilulfo non si agita, fa soltanto l’essenziale, non fa poco, non fa troppo. Lui fa il giusto, come un soldato.

Perché hai scelto il cavaliere inesistente, tra i personaggi della trilogia di Calvino?

Il cavaliere mi ha folgorato. Sono affascinato dal concetto dell’inesistente. Forse anche perché gli spettacoli di Donati&Olesen sono invece pienissimi, ognuno conteneva anche 2/3 spettacoli, abbiamo sempre avuto paura del vuoto. E io come attore ho paura quando non succede niente in scena, ho paura di non ricordare la parte. L’inesistente per un attore è anche quello che non si sapeva di poter fare; un bravo regista, come Armando Pinheiro, è capace di farti crescere suggerendoti cose per te ignote.
Ho voluto affrontare il senso di esistere e non esistere. Il silenzio e i vuoti, cui non diamo sempre il giusto peso, sono fondamentali, come lo sono le pause in musica: la sospensione di quando aspetti quello che sta per venire. Il vuoto si riempie con il pensiero.
In fondo perché ti innamori di una persona? Forse soprattutto per quello che non vedi.  Bradamante infatti si innamora perdutamente di Agilulfo. Del resto è facile innamorarsi di qualcuno che non c’è.

Tu entri in scena nei panni di Suor Teodora, religiosa dell’ordine di San Colombano, che in convento scrive e racconta i fatti, affermando più volte di farlo basandosi su vecchie carte e chiacchiere sentite in parlatorio da gente che vi aveva assistito. Anche questo è un artificio, però.

Il libro è una matrioska letteraria. Il narratore è Suor Teodora, che finge di non saper nulla dell’accaduto per via diretta, ma chi racconta la suora e quindi la storia tutta è Calvino stesso. Di fatto è come se la narrazione fosse a quattro mani, un trompe l’oeuil fatto di parole. Alla fine del libro, e dello spettacolo, si scoprirà la vera identità di Suor Teodora, coinvolta ben più che sulla carta negli avvenimenti.

Hai ideato tu le scenografie? Per esempio quelle canne che batti, che segnano il cambio di personaggio.

Le ho pensate insieme ad Antonio Belardi. Quelle canne sono come campane che annunciano la suora, dando un bel suono. È lo stesso materiale metallico di cui è fatta l’armatura, è come se fosse anche quel metallo a risuonare, quella “scatola” senza contenuto, producendo però un’idea sonora e quindi una presenza.

E quel grande fondale-pagina su cui scrivi?

Il fondale è come un libro, ci scrivo sopra con un’inchiostro che svanisce. Un inchiostro che ho fatto arrivare dalla Cina e che dopo un po’ se ne va, come il cavaliere. Anche le parole svaniscono, alla fine, così come alla fine si chiude il racconto a cui il pubblico ha partecipato.

Nell’introduzione allo spettacolo hai fatto un bel parallelo tra l’inesistenza del cavaliere e quella del pubblico, come ti sei trovato davanti a una platea vuota?

Noi teatranti a differenza di chi fa cinema e tv, abbiamo sempre un rapporto con lo spettatore, sentiamo la risposta, una risata, un sospiro o un’apnea. Con lo streaming è diverso, so che ci sono persone al di là, a casa, ma né li vedo né li sento, li posso solo immaginare. Come deve fare il lettore (o lo spettatore) con il cavaliere. Vedo i tecnici che sono presenti fisicamente, lavorano controllando sia la scena sia la qualità del collegamento. Sono loro i miei veri spettatori, in quel momento.

Il respiro dello spettacolo cambierà davanti al pubblico?

Sicuramente sì, perché quello è il vero rapporto con lo spettatore. Il ritmo, più veloce o più lento, è un gioco che si gioca insieme, il teatro è un organismo vitale che batte solo tramite l’unisono tra attore e spettatore. C’è un’osmosi, uno scambio diretto tra platea e palco. Io sono un giocatore, mi piace il gioco dell’illusione, che è il gioco dell’attore del teatro.

E il pubblico giocherà insieme al cavaliere continuando a inseguire quella guarnacca color pervinca.

IL CAVALIERE INESISTENTE

con Jacob Olesen
adattamento Francesco Niccolini e Jacob Olesen
regia Armando Pinheiro e Jim Calder
disegno luci Fabrizio Giometti
costumi Margaret Raywood
scene Antonio Belardi
coach Rosa Masciopinto
produzione Enrico Carretta

Trasmesso dal Teatro Café Müller di Torino, visto in diretta streaming su niceplatform.eu, nell’ambito della Stagione teatrale digitale di Fondazione Cirko Vertigo
13 marzo 2021