Frammenti di memoria
di Tania Nelli
Sotto una luce calda e sanguigna, una voce soave intona una dolce melodia sulle note di una chitarra. Il canto si spande nell’aria riecheggiando nella memoria degli spettatori. Come la musica di un pifferaio magico, la soave armonia incanta il pubblico e lo introduce a un mondo trasognato. La cantante Viviana Marino, vestita di velluto rosso intenso, attraversa il palco sedendosi poi di lato, in un angolo, per assistere all’azione. Come un narratore esterno, ella custodisce la storia e, attraverso le ballate iniziali e finali, la ninna nanna ebraica e altri motivi, scandisce le tappe della rappresentazione invitando all’abbandono in questo abbraccio onirico.
Prende così avvio La mamma sta tornando, povero orfanello, un dialogo scenico di stampo autobiografico, scritto da Jean Claude Grumberg. Il testo, tradotto da Giacoma Limentani, viene messo in scena dalla coppia d’arte e di vita Dario Marconcini/Giovanna Daddi. Sulla scia del precedente lavoro , Quasi una vita, viaggio intimo all’interno della propria storia, il duo approda con grande naturalezza a questo nuovo dramma teatrale che indaga la questione della memoria, finendo per insinuarsi nei meandri della solitudine.
Il titolo riassume in sé l’essenza dello spettacolo e, come un vaso di Pandora, una volta aperto, si espande portando alla luce meccanismi disfunzionali che dominano la relazione tra l’orfanello sessantaduenne e la madre. Il racconto tocca vari temi e in modo particolare l’incomunicabilità tra genitori e figli, provocata da quel gap generazionale che spesso sfocia in incomprensioni .Esito ineluttabile, l’allontanamento. Tanto la madre quanto poi, più avanti, il padre, pur non avendo tratti in comune, sono concordi circa l’assoluta inutilità del mestiere di autore del figlio. Per contro, gli interrogativi del protagonista, alla ricerca della verità più profonda tramite la ricostruzione di minuti dettagli di vita quotidiana, non trovano risposte ma soltanto sprazzi e lacerti di ricordi appena abbozzati; un viaggio nel passato, dunque, che mai si svelerà completamente.
Sulla destra del palco, seduta su una sedia a dondolo, appare la madre-fantasma, immersa nel suo piccolo mondo sospeso e illuminata da una luce calda. Ella attraversa graduali cambi di personalità: durante le sue varie apparizioni passa infatti dall’essere educatrice autoritaria e perentoria a nuance più miti, da donna anziana. Nel frattempo, la sua postura rigida si scioglie, abbandonandosi al rilassamento totale nel momento in cui vengono rievocate le “belle domeniche” del passato. Il bambolotto, con cui poi la donna gioca per un certo lasso di tempo, all’improvviso viene gettato e abbandonato a terra: il figlio è cresciuto; è ora che intraprenda la sua strada!
L’ex bambino, ormai in là con gli anni, siede solitario su una panchina posizionata al centro della scena, vuota e buia, illuminata da un fascio di luce fredda. Le luci, orchestrate da Gargiulo e Fresia, oltre a scandire il tempo dei flashback, aiutano a far emergere i temperamenti dei diversi caratteri. Ad attirare in modo particolare l’attenzione è il geometrico pavimento bianco e nero che, pur nella sua estrema semplicità, rimanda efficacemente a cornici spazio-temporali differenti, adattandosi perfettamente ai vari temi trattati: dall’abitazione anni ‘40 (riallacciandosi così alla memoria del nazismo), all’asettico ambiente ospedaliero. Dalla quinta in fondo, entra poi un personaggio multisfaccettato, che si presenta dapprima come Dio, poi come conturbante anestesista, in seguito come direttore di una casa di riposo e infine come lo sconosciuto padre. Le diverse figure, sempre ricche di energia vitale, sono interpretate dal medesimo attore ( Emanuele Carucci Viterbi) che sceglie di porre l’accento sul ruolo dei vari personaggi anziché optare per un cambio d’abito per distinguerli. Per quanto riguarda invece l’orfanello, la scelta accorta del suo costume, basato sui toni freddi del grigio-azzurro, proietta lo spettatore in un’ambigua dimensione atemporale che pare rimandare tanto al fantascientifico cittadino alienato di Metropolis quanto al deportato nei lager o al paziente in corsia.
La messa in scena si chiude con la domanda del padre che, accorato, chiede al figlio se nel mondo siano finalmente cessate le persecuzioni e le ingiustizie. L’orfanello risponde di sì ma è un’asserzione tristemente rassegnata. Lo spazio di conversazione con il genitore muta ben presto in soliloquio. La luce così si spegne, prima sul più giovane padre (morto quarantaduenne nell’orrore dell’Olocausto), poi sull’anziano discendente. Quest’ultimo, pur vivo, è solo un povero orfanello.
Conoscevo già Marconcini-Daddi, storica coppia del teatro italiano, che da sempre cercano idee fra i testi meno noti e più particolari. Recensione ben scritta e di piacevole lettura!