SUSANNA PIETROSANTI | GERMANIA. Römischer Komplex è il titolo di uno spettacolo diretto da Simone Derai e Anagoor ma prodotto nella Ruhr dallo storico teatro di ricerca tedesco Theater and der Ruhr che ha scelto Anagoor come collettivo di artisti in residenza per l’eccezionalità del percorso dimostrato in Italia. Il Theater an der Ruhr è stato fondato quarant’anni fa da un altro artista italiano, Roberto Ciulli, regista e attore, che recentemente a Kassel è stato insignito del Faust alla carriera, prestigioso premio del teatro tedesco.
Nata lo scorso anno con il riallestimento in lingua tedesca di Socrate il sopravvissuto come le foglie, la collaborazione produttiva tra Anagoor e Theater an der Ruhr continua quest’anno con GERMANIA. Römischer Komplex, la prima produzione della compagnia interamente realizzata con un teatro non italiano e con la partecipazione dei membri dell’ensemble. Il debutto del lavoro, previsto per il 16 gennaio scorso è stato rimandato in osservanza alle regolamentazioni in vigore, in attesa che Theater an der Ruhr possa riaprire al pubblico. Anche la nuova possibile data, il 16 di aprile, è stata cancellata. Tutti i teatri tedeschi sono in attesa di nuove regole per la riapertura.
Lo spettacolo prende le mosse dalla Germania di Tacito, rapporto etnografico pubblicato alla fine del I sec. d.C. Nel 9 d.C., riferisce Tacito, tre legioni romane, guidate dal generale Varo, attraversarono il confine con la Germania. Il loro compito era quello di annettere all’Impero Romano le aree sulla riva destra del Reno fino all’Elba. Tuttavia, gli esiti si rivelarono diversi da quanto previsto. Le tribù germaniche guidate da Arminio, principe dei Cherusci, distrussero le legioni romane nella battaglia della foresta di Teutoburgo.
Il potere vuole dimenticare, il poeta vuole ricordare. Accompagnati da testi di Durs Grünbein, Antonella Anedda e Frank Bidart – oltre a Tacito – gli Anagoor tornano al campo della battaglia e della disfatta di Varo. Al luogo in cui le ossa bianche (albentia ossa) di Romani e Germani si mescolano e si fanno indistinguibili, raccontando la sorte comune di chi, allora come oggi, protegge o varca i confini nazionali. GERMANIA è un’indagine poetica sui confini disegnati arbitrariamente e sul loro superamento, una preghiera per ciò che di noi c’è nello straniero e per ciò che di straniero c’è in noi, e un’insolita e sottile apertura sul processo di creazione di una produzione teatrale.
La sconfitta di Teutoburgo è stata la più amara e irrimediabile nella percezione che i Romani ebbero della propria storia, un vero e proprio impasse. Sicuramente lavorare su questo tema in questa congiuntura ha voluto dire affrontarne le conseguenze, in parte evocarlo, in parte disinnescarlo.
Possiamo sicuramente dirci fortunati per aver lavorato durante l’inverno in coincidenza con la recrudescenza del contagio. Nonostante la chiusura dei teatri, nonostante le restrizioni progressive fino a un lockdown severissimo in Germania dall’inizio di dicembre, ci è stato comunque concesso di provare a porte chiuse e in sicurezza portando a termine il lavoro. Tuttavia in gennaio non è stato possibile presentare lo spettacolo al pubblico del Theater an der Ruhr come previsto, e anche la premiere posticipata al 16 aprile è saltata. Se ne riparlerà in autunno. È una condizione anomala quella di perfezionare un lavoro teatrale, dandogli linfa e nutrendo energie che però non possono trovare sbocco nella presentazione al pubblico e così vengono sciupate. Un anticlimax inconcepibile per gli attori e per chiunque viva il teatro. Una frustrazione difficile da descrivere senza scivolare in un odioso piagnisteo poiché in fondo per chi ha potuto lavorare si tratta comunque di una condizione di privilegio a fronte di molte produzioni sospese o cancellate e di molti colleghi in gravi difficoltà.
In questo nostro GERMANIA non c’è traccia dell’argomento pandemico. Eppure non posso non osservare che l’argomento dell’estraneità e delle conseguenze dell’entrare in contatto con lo sconosciuto di fatto sono il vero vocabolario, direi quasi l’eziologia del contagio. Con la pandemia noi ci siamo scoperti una volta di più connessi l’uno all’altro, come fossimo tutti avvolti dalle maglie di un’unica rete, ma questa connessione è anche frutto di un abuso di contatto, la rete di una caccia eccessiva che noi stessi abbiamo lanciato e che ora avvolge prede e predatori. Oggi l’espansione urbana e lo sfruttamento intensivo della terra e delle sue risorse su scala globale conducono a toccare spazi e sistemi prima intoccati, vergini, così le specie si trovano a convivere un’inedita promiscuità, un eccesso di vicinanza. Le conseguenze di questo contatto ci coinvolgono. Lo sapevamo già, ma saperlo non significava averne coscienza. Il contagio improvvisamente rende manifesto che siamo tutti implicati.
La migrazione incessante delle masse umane sulla Terra è sistema di propagazione genetica e culturale che ha determinato l’intera storia del genere umano e del pianeta. L’incontro tra le genti come le due facce di una medaglia aurea ha aspetti contrastanti: da un lato la sensazione positiva di un guadagno reciproco generato dallo scambio, dall’altro il timore irrazionale di una perdita di sé nel contatto con l’altro, la paura di essere contagiati e confusi con un’alterità che non si conosce.
Lo spettacolo non a caso termina con il racconto dello sgomento che un campo di battaglia ricoperto di ossa ormai bianche provocò in una spedizione romana guidata da Germanico nel 16 d.C., sette anni dopo la distruzione delle tre legioni di Varo da parte di alcune tribù germaniche ribelli capeggiate da Arminio. È Tacito a raccontare la scena nei suoi Annali: l’incapacità di distinguere le ossa degli amici da quelle dei nemici, e persino da quelle degli animali della colonna, suscitò in Germanico e nei suoi soldati una reazione inaspettata di profonda commozione, a tal punto da convincerli a officiare un rito funebre che, per l’eccesso di vicinanza con la morte e per la pietà dimostrata nei confronti degli stranieri nemici, destò scandalo a Roma e fece infuriare l’imperatore Tiberio
Come si è sviluppata questa ricerca? Tacito non è un autore di tradizione teatrale: come lo è diventato? Come è stato possibile accostarlo, sempre drammaturgicamente, ad altri testi, e quali sono state le tappe di lavorazione di un testo che, forse inconsapevolmente, si è creato?
L’idea di un lavoro sulla Germania di Tacito esisteva da molto tempo, fin dalle prime ipotesi di collaborazione tra noi e l’ensemble di Theater and der Ruhr quando nel 2016 fummo invitati per la prima volta al Festival di Primavera con Lingua Imperii. Ma è stato l’incontro quasi fortuito con una poesia di Frank Bidart, The Return, ad innescare il processo di creazione di questo nostro GERMANIA. Anche in questo lavoro, come in altri che lo hanno preceduto, sono diversi i piani della scrittura drammaturgica: un primo livello riguarda il tema dell’idea che ci facciamo dell’altro, direi quasi dell’invenzione dell’altro, tema intrinseco a quel “reportage” etnogafico che fu la Germania di Tacito – considerato, per la storia della sua fortuna, uno dei libri più pericolosi di tutti i tempi ; il secondo livello riguarda invece l’approccio archeologico, l’andare al cospetto del passato, mettersi in ascolto dei morti, di tutti i morti, l’insistenza quasi ossessiva a “ritornare” a quel campo di ossa descritto negli Annales, non solo un campo di battaglia tra Romani e Germani, ma il campo della Storia, il campo dei diversi e comuni destini umani. Non è solo Germanico a fare ritorno a quel campo con le sue legioni, ma vi ritorna lo storico, e per mezzo dello storico i poeti che invitano tutti noi a continuare a farlo.
Non dico poeti al plurale a caso. Ci è apparso sintomatico infatti notare come ben tre poeti contemporanei, l’americano Bidart, il tedesco Durs Grünbein nel suo Germanischer Komplex e l’italiana Antonella Anedda in Historiae, si siano sentiti convocati dallo storico romano, dalla sua lingua, dalla questione stessa della Storia. I poeti sanno quando è ora di fare ritorno.
Per la vostra drammaturgia si è parlato spesso di montaggio, di uso armonioso di diversi media, di alternanza ecfrastica di immagini e di categorie spaziotemporali. Cosa dobbiamo aspettarci da questa neonata GERMANIA?
GERMANIA, a differenza di altri lavori di Anagoor, non è suddiviso in parti o capitoli. È il succedersi di quattro voci a portare punti di vista progressivamente diversi e a donare una prospettiva di sguardo su una materia altrimenti caotica. Dalle astuzie della retorica imperiale, programma di ogni romanitas che pretende per ogni straniero una subalternità costitutiva, al disincantato e melanconico appello di un Germano dalla pelle dipinta di verdeblu a non essere definito prima di essere conosciuto. Un binarismo romani-barbari, noi-gli altri, che è presto alterato dall’ingresso di altre due voci più vicine al nostro tempo. La prima di queste due nuove figure si accosta alle ossa per ascoltare il riverbero di ciascuna vita passata, esiliata, in fuga, tempestata di spine. Per questa archeologa ogni reperto è testimonianza processuale «Ci sono tracce? O sento solo io i perduti, gli stranieri?», e interpella direttamente lo spettatore nella sua comoda indifferenza «Lo sai, alcuni fuggono, altri sono macellati nel sonno», per constatare che «le parole sono troppo povere».
La quarta voce è Roberto Ciulli, regista e fondatore del Theater an der Ruhr. Fa il suo ingresso spezzando in due lo spettacolo, interrompendone il flusso. Attraversa il confine della scena e, raggiunto il proscenio, luci accese in platea, parla agli spettatori: un racconto in prima persona e senza mediazioni, addirittura autobiografico dell’esperienza dell’essere straniero in un paese nuovo, e delle diverse fasi dell’estraneità. Così lo spettacolo non poteva non essere plurilingue: l’italiano si alterna al tedesco, e il latino di Tacito compare in un breve drammatico segmento.
Un lavoro così complesso fa enumerare diverse categorie critiche, o curiosità. La scelta e il senso e la trasformazione dei poeti contemporanei, la presenza di Tacito (epico e non, erede di Virgilio e non), la collocazione di questo lavoro nella catena Anagoor.
«Il grigio libro di Tacito / Scritto quando il suo autore aveva sessant’anni / Dice soltanto ciò che deve. Sul grigio orizzonte / Degli Annales non c’è posto per i paesaggi o per l’amore: / Ci cura questa forma lapidaria». Sono versi di Antonella Anedda che hanno il sapore di un’intuizione provocatoria. La scrittura di Tacito è nota per la natura asciutta e sintetica ai limiti dell’ardito. Ma il paesaggio è lungi dall’essere assente. Quello che Anedda espone è un silenzio assordante di cui Tacito è maestro. Negli Annales la descrizione del ritorno delle legioni guidate da Germanico sul sito della disfatta di Varo è un’operazione letteraria straordinaria e insieme una definitiva lezione di storia. Tacito non racconta il massacro. Non può. Non descrive l’imboscata nel sito troppo stretto per quella colonna infinita di carri, soldati, cavalli, muli, centinaia di donne e uomini carichi di provviste e bagagli al seguito dei legionari, non narra i due giorni di straziante tentativo di difesa. Al contrario ci descrive un paesaggio ormai deserto, il sito della battaglia visto con gli occhi di chi sette anni più tardi tornava sul luogo. Così è il paesaggio stesso a rammentare i fatti a chi torna per conoscerli. La geografia diventa monumento. Tacito, lasciando parlare il sito (la foresta, i tronchi con i teschi infissi, gli spazi angusti, i resti dell’accampamento, il muro sbrecciato, il campo aperto, le fosse comuni…) ci guida per mezzo dell’ecfrasi a riconoscere che il paesaggio è in grado di far esplodere sentimenti inaspettati. «Sul grigio orizzonte / Degli Annales non c’è posto per i paesaggi o per l’amore» assume così un valore imprevisto. La geografia del sito, dello spazio, dei luoghi si limita ad essere osservata oggettivamente, lapidariamente, mentre è in noi, come in Germanico e nei suoi legionari improvvisamente commossi, che deve esplodere la pietà. Nessuna consolazione, ma una possibilità di trasformazione: «Ci cura questa forma lapidaria”.
Il teatro pretende per sé questa stessa potenza.
Il passaggio a Tacito dopo le esperienze al cospetto delle opere di Eschilo e Virgilio è quasi un percorso obbligato. È come se stessimo inseguendo le tracce di una pista, a caccia del tragico fuggito dal recinto del teatro di Atene, dilagato nelle strade e nelle piazze della città insieme a Socrate, e poi capace di viaggiare quiescente nello spazio e nel tempo e, mutata pelle, di risvegliarsi accendendo nuove forme poetiche o generi, illuminando con la sua luce sinistra il pensiero degli uomini di ogni tempo sulla realtà.
Uno dei temi forti del vostro lavoro è, appunto, il confine con le sue mille accezioni.
Roberto Ciulli in scena descrive la sensazione di paura nell’attraversare fisicamente un confine. Linee geograficamente inesistenti e arbitrariamente tracciate hanno il potere di agire sulla psiche degli uomini che quelle linee separano. Il potere del confine non è limitato soltanto all’area territoriale per il controllo della quale è tracciato. Il suo potere striscia subdolo e divide i gruppi familiari e le comunità solidali, i clan, le tribù, e fende i corpi e le menti, mozza le lingue rendendo balbuzienti. Nello spettacolo l’unica porzione testuale direttamente proveniente da Tacito è un breve episodio presente negli Annales: si tratta dello straziante alterco tra i fratelli Arminio e Flavo che Tacito descrive separati simbolicamente dal fiume Visurgo (l’attuale Weser). Anche in questo caso, come per la descrizione del sito della battaglia di Teutoburgo, il paesaggio in Tacito è più di un mero sfondo scenico contro il quale è disposta la narrazione. Nell’episodio descritto da Tacito, Arminio, il principe dei Cherusci ribelli, che aveva servito fedelmente Roma fino a quando forse in Pannonia non era subentrata una crisi personale, e Flavo suo fratello, che invece sosteneva la necessità di mantenere la lealtà verso l’Impero, appaiono divisi dalle acque del fiume, con alle spalle i rispettivi eserciti. Disposti su rive opposte, i due gemelli tentano disperatamente di attrarsi a vicenda, ma finiscono per scivolare in acqua da sponde che franano, mentre precipitano allo scontro verbale, che diventerebbe fisico se non fossero trattenuti dai commilitoni. La scena ha un picco drammatico quando, pur inneggiando alla ribellione, Arminio è descritto da Tacito urlare in latino, e bestemmiare in quella lingua alla quale era stato educato fin da piccolo per servire nell’esercito di Roma.
Un grande momento di teatro, insomma …
Speriamo che presto possa diventare teatro, e presto ri-conoscere l’abbraccio e lo sguardo del pubblico, e che possa, presto, tornare. Lo speriamo tutti…