ELENA SCOLARI | La guerra è bella anche se fa male? Come cantava De Gregori? Che poi lo diceva soprattutto per quando dalla guerra si torna (se si torna) e intendeva che la guerra è bella non lo pensa più nessuno quando sei a mangiare il sugo, quando viene natale…
La guerra è un brutto affare, ed è anche una materia non facile da affrontare, ancor di più se non si tratta di conflitti del passato ma di come sono i conflitti oggi: freddi, tecnici, ingegneristici e ugualmente barbari. Benché mascherati con efficienza modernista.

La protagonista di Grounded, testo di George Brant, tradotto fluidamente e con dinamismo da Monica Capuani, è una Top Gun, una pilota che sganciava le bombe dal suo caccia, in volo, e al suo aereo aveva anche dato un nome, tanto lo sentiva come guscio familiare. Rimane però incinta e l’American Air Force le impone di rimanere a terra (‘grounded’, appunto), dalle parti di Las Vegas, ma le operazioni di guerra non si fermano nemmeno stando al suolo: piloterà un drone, a distanza, da una stanza senza finestre che diventa il suo ufficio bellico, e da lì lancerà ancora ordigni. La sua missione è seguire “il profeta” – un terrorista, presumibilmente islamico, in terre che potrebbero essere l’Iraq o l’Afghanistan (sfondo descritto in modo approssimativo e tutto sommato non determinante) – per colpirlo quando scenderà dal suo veicolo, un puntino in movimento sullo schermo, come in videogioco.

ph Federico Pitto

La vita personale e vera della donna – il marito, la bambina, i pony rosa con cui gioca la figlia – si comincia a intrecciare con il lavoro, un lavoro da cui torna a casa tutte le sere, come da un’azienda, quando il suo turno finisce e il collega del turno successivo le tocca la spalla per segnalare il cambio della guardia. La mente della donna comincia però a non distinguere più il piano professionale da quello personale e quella strana simulazione di guerra, che simulazione non è, la confonde, la disorienta e il senso di colpa che la consuma produce sovrapposizioni che creano un unico, disordinato contesto in cui quell’auto del profeta diventa la sua auto, le figure sullo schermo sembrano le persone della sua vita, in un incubo allucinatorio dove la lucidità se ne va e le scelte diventano impossibili da prendere.

“In questo testo si mostra un’inevitabile schizofrenia: una persona si scontra con il passaggio da una guerra con un rischio personale e forse con una parvenza etica – se mai si possa considerare etico bombardare dall’alto una popolazione con i caccia – perché almeno c’è il rischio della propria vita, magari per un colpo di contraerea, a una guerra dove piloti un drone con un joystick da 15mila km di distanza”, dice il regista Davide Livermore. Il fulcro della riflessione sta proprio in questo: in operazioni di guerra come queste, quanto è grande il rischio di credere che si stia giocando un partita, perdendo il senso della mostruosa realtà che si sta invece vivendo e “telecomandando”?
Pensando ai veri piloti di droni colpisce il (possibile) misto di esaltazione guerresca e la vigliaccheria di combattere stando al sicuro di una base.

ph Federico Pitto

Linda Gennari ha un fisico nervoso, è visibile la tensione dei muscoli, in scena, la sua recitazione racconta dell’altalena di sentimenti e sensazioni tra l’innamoramento dell’uomo che la rimorchia in un bar frequentato da piloti e che poi sposerà, e lo spaesamento doloroso in cui piomberà, come se la bomba fosse caduta addosso a lei, però per gradi. Un ordigno grigio e cupo che man mano rabbuia la sua esistenza fino a farle smarrire la rotta. Lo stile del suo narrare è spigoloso, un poco metallico (come gli aerei) ma si può considerare una scelta coerente con l'”assetto militaresco” cui è abituato il personaggio e forse con l’espressione contratta di un’energia che non si può scatenare come succede volando, stando nell’aria e sentendo i rumori di un’azione davvero tangibile. Si tratta però di una tensione che sta più nella forma e nella maniera che nel testo o nello spettacolo.

Il volo è ricordato dall’impianto scenico ideato da Livermore e Lorenzo Russo Rainaldi, un piano mobile sollevato dal pavimento del palco (contrariamente alla situazione della protagonista che è invece “atterrata”), un trapezio a rappresentare la forma dell’aereo, che punta il muso verso il basso per scendere, alza il naso per prendere quota. Una struttura di americane rende il piano solido ma lascia che resti leggermente oscillante, appeso ai tiranti d’acciaio: “Una macchina scenica che vuole essere un luogo di narrazione”, afferma il regista. Gli stacchi narrativi sono accompagnati da suoni – a volte colpi secchi che si affiancano alle battute che segnano la vicenda – e musiche (di Andrea Chenna), e dalle luci (di Aldo Mantovani) che in parallelo creano brevi battiti di buio e disegnano con i colori i contorni del trapezio.
C’è un altro elemento importante, nominato più volte durante lo spettacolo: la tuta da pilota. Gennari però non la mette mai, gliela sentiamo nominare come un simbolo, come un segnale, uno strumento di espressione. E anche di appartenenza a una comunità che si sfalda come si sbriciola l’identità della donna. Comparirà indossandola solo sugli applausi, quando Gennari è tornata Linda e non più la Top Gun.
O forse no?

GROUNDED
di George Brant
traduzione Monica Capuani
regia Davide Livermore
musiche Andrea Chenna
scene Davide Livermore e Lorenzo Russo Rainaldi
costumi Mariana Fracasso
luci Aldo Mantovani
assistente alla regia Sax Nicosia
interpreti Linda Gennari
produzione Teatro Nazionale di Genova

Teatro Ivo Chiesa, Genova | 8 maggio 2021