ILENA AMBROSIO | “Un nuovo fiore di progetto che riconvoca la comunità del Teatro. Mescolando le carte tra percorsi artistici, per ritrovarci compagni di viaggio nell’arte e nel teatro”.
È con queste parole che Elena Di Gioia descrive Epica Festival, del quale è direttrice artistica: un progetto speciale che nasce in continuità con le cinque stagioni di Agorà e che, come quelle, assume la cura degli artisti, la valorizzazione e l’incontro con la comunità come proprie precise e fondamentali responsabilità.
Svoltosi in due tappe – dal 2 al 6 giugno e il 15 e 16 giugno – la prima edizione di Epica ha accolto anteprime, debutti, prove aperte con racconto, spettacoli e performance, letture, proiezioni, tavole rotonde, diffondendosi negli spazi teatrali o per nulla tali di più comuni – Castel Maggiore, Castello d’Argile, Pieve di Cento e nella città di Bologna – con la caparbia volontà di intrecciare storie, prospettive, immaginari nella convinzione che sia questa la strada da imboccare per un reale rilancio dell’arte e degli artisti così come per un incontro sincero e onesto con il pubblico.
Terminata questa edizione pilota di Epica abbiamo raggiunto Elena Di Gioia per farci raccontare da quale necessità è scaturita e verso quali futuri possibili potrà proiettarsi.
Elena, Epica è stata una sorta di crocevia di alcune delle fondamentali strade che tu già percorri nella tua pratica di curatela, in particolare quella che ti porta all’incontro con gli artisti, con la comunità e anche al confronto con le narrazioni e gli sguardi critici. Da cosa è nata l’esigenza di far convergere, proprio ora, queste buone pratiche in un nuovo progetto?
Con Epica abbiamo voluto dare, dopo l’anno da cui veniamo, un segnale concreto di rilancio e di sostegno sia agli artisti che alla relazione con il pubblico. È nato come fiore di progetto, così l’abbiamo pensato, con un’immagine che abbiamo riproposto simbolicamente tramite la fotografia di Nino Migliori.
Tutto è partito da un bisogno e insieme un desiderio di un gesto progettuale nuovo al quale abbiamo dato la forma di un festival per sottolineare con forza il senso dell’incontro, perché un festival è, come parola antica, una festa del teatro che sottolinea l’importanza del ritrovarsi, anche l’eccezionalità e l’extraordinarietà del ritrovarsi.
Con Epica il ritrovarsi è stato anche tra artisti e sguardi critici in una zona di riflessioni e messa a confronto dei tanti snodi che sono emersi in questo anno e provando a rivedere gli orizzonti futuri. Quindi Epica nasce un po’ come il desiderio di lanciare il cuore oltre l’ostacolo, tanto più in questi tempi, con le tante incognite ancora aperte
Ed è un cuore condiviso con quello di tanti artisti che sono stati presenti a Epica e lo sono stati anche rispondendo all’invito di comporre una performance nuova, un gesto nuovo proprio per l’occasione. È stato, per esempio, il caso di Roberto Latini con Venere e Adone, con il quale siamo partiti dopo un anno di silenzio rispetto alla parola ‘attore’.
Il mese scorso l’avevamo avuto anche ad Agorà con una lettura di poesie di Federico Garcia Lorca e in quell’occasione, finito lo spettacolo mi ha detto: “Erano 202 giorni che non mettevo piede su un palcoscenico”. Ecco, quel numero… Epica nasce anche pensando a questa matematica della grande solitudine e fragilità degli artisti e alla voglia di rilanciarne la voce nel nostro Paese e nelle nostre comunità. Perché quel numero lì fa male.
Artisti soli e fragili… Di fronte allo shock che abbiamo vissuto, tutto il mondo della cultura, in generale, e del teatro, in particolare, ha pensato che fosse il momento giusto per cambiare qualcosa, per fare in modo che la crisi fosse, etimologicamente, l’occasione di una decisione forte di un cambiamento. È passato più di un anno: credi sia stata un’opportunità persa? Epica vuole ancora cogliere l’opportunità di dare un segnale di cambiamento?
Io penso che la responsabilità di essere operatori e operatrici culturali, direttori e direttrici artistiche sia quella di, continuamente, strenuamente, instancabilmente tentare di migliorare il sistema teatrale, le condizioni di sostegno degli artisti, il lavoro nelle comunità. Io vivo la responsabilità di una direzione artistica con questa salda tenacia e con la ferma convinzione che possiamo e dobbiamo agire all’interno del sistema teatrale, andando a lavorare in quelle fratture grosse e gravi che ci sono e che quest’anno ha reso ancora più profonde.
Se tu fossi – giochiamo di fantasia ed evitiamo ruoli reali – il Mago Merlino del teatro e avessi potuto decidere come ricucire queste fratture, cosa avresti fatto? L’hai fatto con Epica?
Innanzi tutto avrei tenuto i teatri aperti anche se chiusi al pubblico. Questo, secondo me, è un concetto importante da ribadire: siamo stati chiusi ma potevamo non essere fermi. Non essere fermi poteva e può significare tante cose: aprire i propri spazi agli artisti per le prove, per una condivisione progettuale, per sostenerne i lavori e anche il tragitto futuro; poteva e può significare aprire a residenze, sostenere scritture perché è stato un periodo tragico in cui tanti artisti hanno riflettuto e scritto, incubando nuovi pensieri e nuovi linguaggi. Quindi io credo che tenere il dialogo vivo, aperto e acceso con gli artisti sia la prima condizione necessaria. E contemporaneamente farlo anche con il pubblico, non dimenticando mai la relazione con la comunità.
Vedi, io credo in un ottimismo che nasce dall’osservazione critica delle cose. Io sono ottimista perché lo voglio essere, perché parto dalla consapevolezza, pessimistica, che c’è necessità di cambiare le cose e che mi fa sentire forte la responsabilità di rilanciare e rilanciare.
In Epica ho voluto assecondare proprio questa spinta, a maggior ragione di questi tempi in cui molti hanno messo i remi in barca per necessità o per volontà, perché non ci sono state le possibilità o le sensibilità sufficienti. Farlo con un festival ha significato ospitare nuovi lavori prima ancora del debutto, in una forma alla quale teniamo molto che è stata quella delle prove aperte con racconto, come nel caso di Antonio Attisani e César Brie o di Oscar De Summa e Marina Occhionero. Questo ha significato essere vicini a quel momento di primo affaccio di un lavoro che è un momento di rischio, di emozione che necessita di unsostegno forte. Abbiamo accolto il debutto di Kepler che avevamo ospitato per un mese.
Allora penso che se, a macchia, i teatri avessero aperto o aprissero gli spazi, i dialoghi, l’osservazioni verso gli artisti e il pubblico, qualcosa davvero cambierebbe.
Poi penso anche ad alcuni gesti importanti che sono accaduti in quest’anno come quello di Teatro delle Albe e Ravenna Teatro che ha destinato una parte dei fondi di emergenza ricevuti alle compagnie in difficoltà. Se non fosse stato un caso unico? Se si fosse esteso? Cosa sarebbe successo al sistema teatrale, al senso della solidarietà artistica? Che non è una solidarietà umana ma specificamente artistica, nel senso di poter fare quadrato con gli artisti della propria comunità e del proprio territorio, per sostenerli. In questo anno è una domanda che noi abbiamo sentito in maniera molto forte: come sostenere di più?
Per cui sì, la crisi era un’occasione importante ma era voglio sostituirlo con è un’occasione, deve esserlo sempre un’occasione per modificare le cose. Ed Epica si inserisce proprio in questo tentativo di rivedere un orizzonte del sistema teatrale anche nel dialogo forte con le comunità e con i luoghi in cui accade.
Comunità e luoghi sono altri due tasselli importanti nella tua “poetica” curatoriale. Come è stato il rapporto della, anzi, delle comunità con Epica e con i luoghi in cui il Festival si è diffuso?
Epica è stato accolto benissimo, soprattutto è stato vissuto con la forza di un rito condiviso. Penso anche all’atto di apertura del Festival, un rito sonoro di Mariangela Gualtieri alla quale avevo chiesto di pensare a un esordio che raccontasse come ci stavamo ritrovando dopo questo anno. Per molti era il primo spettacolo dopo tanti mesi per cui c’era anche una palpabile emozione del ritrovarsi. Lo stesso è accaduto durante le tavole rotonde, guardandosi occhi negli occhi a dirsi il tempo da cui veniamo e quello verso il quale vogliamo andare. C’è stato un senso molto forte del rincontrarsi, qualcosa da ricordare anche per il futuro.
In questa partecipazione hanno giocato un ruolo importante i luoghi. In Epica abbiamo proposto dei luoghi che hanno agito molto, da un lato, sulla qualità di percezione dei lavori, dall’altro sulla curiosità del pubblico. Penso, per esempio, a un podere agricolo con centinai tra pecore, mucche, cavalli, in cui ha debuttato Bestiario solitario cofirmato da Teatrino Giullare e Angela Malfitano/Tra un atto e l’altro, o all’ex cimitero ebraico dove abbiamo allestito la lettura integrale di La morte di Ivan Il’ic di Tolstoj proposta da Paolo Nori. Oltre ai teatri, questi luoghi e poi rocche medievali, ville, parchi, hanno acceso una curiosità per chi è dei comuni e non li aveva mai visti o li ritrova abitati drammaturgicamente. Come anche per Agorà, questo lavorare a stretto contatto con i luoghi significa invitare gli spettatori a mettersi in viaggio nell’opera dell’artista ma anche negli spazi.
È emersa spesso, fino a ora, la continuità che c’è tra la stagione di Agorà ed Epica. Una correlazione che sembra anche semantica, come se la parola epica fosse stata quasi necessariamente partorita da agorà, insieme inserite nella sfera di una narrazione rivolta a una comunità.
Sì, epica è una parola che ho voluto far emergere per due sue accezioni fondamentali: da un lato sottolinea il senso dell’avventura, dell’impresa collettiva; dall’altro, etimologicamente, è epos, appunto, una narrazione, e ugualmente collettiva. Quindi ci ricorda di come possiamo costruire insieme una narrazione. Ed è vero, la sento molto vicina ad agorà, sono due parole intrecciate.
Agorà, da cinque anni, risponde alla domanda quotidiana che mi pongo, ossia come mettere al centro artisti e cittadini, al centro della vita delle comunità, al centro delle polis. Ora a quella stagione si è unito, senza soluzione di continuità, Epica e in entrambi i casi si tratta di dare spazio a quel desiderio di affondo nelle comunità, nella complicità grande con gli artisti. Poi, certo Epica prenderà i suoi tragitti. Ci prepariamo già alla seconda edizione.
Ecco, guardiamo al futuro: se dovessi dirmi verso cosa è stato lanciato questo cuore di Epica? Quale direzione ha preso?
Penso che abbiamo dimostrato che è stato possibile realizzare un festival nuovo proprio durante una pandemia, soprattutto tentando di generare una letteratura di contrasto ai tempi bui e tragici, di sconforto. Una narrazione luminosa.
Secondo me il cuore l’abbiamo lanciato in quella direzione lì: dare un segnale che si può raccontare anche in altro modo e si può, anche in questo anno così tragico, far nascere un fiore.