ELENA SCOLARI | La Biennale Teatro 2021 è la prima delle quattro che saranno dirette dal duo ricci/forte, i direttori artistici hanno deciso di caratterizzare i capitoli della loro quadriennalità con i colori: il 2021 è Blue. Come blu è il bel catalogo di quest’anno, che esplora tutte le sfumature del colore: una vera e propria guida accurata, creativa, completa di pagine/busta con un piccolo pieghevole per ogni artista partecipante, arricchito da schizzi e appunti riportati come fossero a mano. (Il “libro” è curato da Ilaria Pellanda e la grafica realizzata da Headline).
E blu è anche il cielo sopra Venezia, parzialmente blindata per via del G20 finanziario, svoltosi proprio nel cuore della Biennale, negli spazi dell’Arsenale, diventato invece zona rossa. Il veliero Palinuro fa bella e piratesca mostra di sè, probabilmente sfoggio dedicato ai 20 “grandi”, ormeggiato davanti all’ultimo ponte in prossimità di Campo de la Tana, accesso all’area della Biennale. Dalle 6 del mattino gli elicotteri delle forze dell’ordine sorvolano la città per fare la guardia, lance della finanza sfrecciano sul Canal Grande e agenti su moto d’acqua si fanno selfie dalla laguna con lo sfondo/cartolina di Piazza San Marco.
La riflessione di ricci/forte è fortemente legata alla contingenza straordinaria che abbiamo vissuto dal marzo 2020 e che stiamo ancora attraversando, non ci si può esimere dal ragionare sui fatti pandemici e soprattutto sulla solitudine cui questa apocalisse sanitaria ci ha costretti. Il nocciolo del pensiero è dunque la relazione con l’altro: come riacquistare il senso di comunità? Come uscire dal blue della cupezza per ritrovare il blu dell’apertura? Il teatro è rito, luogo di continuo e indispensabile scambio tra persone, colleghi, spettatori. Il teatro è uno spazio di esorcizzazione della paura, un luogo dove non si è mai soli. ricci/forte ci esortano a ri-farlo nostro, per uscire all’aperto rompendo il guscio, insieme agli altri.
Dopo l’inaugurazione del 2 luglio con il Leone d’oro Krzysztof Warlikowski e il suo To leave or not to leave, raccontato per PAC da Giambattista Marchetto, continuiamo il diario veneziano con la performance Un teatro è un teatro è un teatro del gruppo OHT [Office for a Human Theatre] diretto da Filippo Andreatta e presentata in prima assoluta al Teatro Goldoni.
Anni fa un organizzatore teatrale esperto mi disse: “Se vuoi capire se il tuo interlocutore conosce i rudimenti del mestiere, chiedigli cos’è una cantinella. Se non lo sa, diffida”.
Il lavoro di OHT rende totale giustizia a questo insegnamento ed è un’ode all’officina teatrale composta dagli elementi tecnici e da tutte le mani e i cervelli che li muovono.
In questo lavoro c’è una sola presenza umana in scena, la cantante Dania Tosi, che compare per alcuni minuti a fondo scena, dietro un velatino, canta un brano dal titolo Beata viscera e unisce la sua voce ai suoni di Davide Tomat e Claudio Tortorici; ma ci sono moltissime presenze fuori scena, a mettere vita sul palco, sebbene non con il proprio corpo. Quello che vediamo è un amoroso catalogo animato dalle anime di chi il teatro lo costruisce e lo “arreda”.
Scendono e salgono americane, sbucano contrappesi, si presentano alla platea sagomatori e par, fondali dipinti con scene naturalistiche di stile barocco si susseguono in una sequenza che vieppiù si addentra nel fitto dell’illusione, mostrando che il trucco della finzione scenica può acquisire senso anche senza figure o personaggi. Suoni, luci (di Andrea Sanson), filtri visivi su piani diversi, tagli laterali che fanno scomparire in un attimo quello che – lo giureresti! – un secondo fa eri certo di aver visto. Il contesto figurativo della natura barocca diventa l’alveo di cui l’uomo deve tornare a essere cosciente di appartenere, non come centro ma come elemento in dialogo con il tutto. Un pan-teatro.
Boschi che attraversano le stagioni grazie ai colori delle gelatine; quand’è che smettiamo di distinguere l’ordine dei piani? Quando la macchina teatrale magnetizza l’attenzione e ti risucchia nel flusso.
Lo spettacolo non c’è, non c’è una storia, nessuno ci sta raccontando nulla se non che il vuoto è quello che abbiamo vissuto, tutti, ma il mondo teatrale un po’ di più, e l’assenza, si sa, può richiamare attenzione più della insistita presenza.
La performance ha forse una durata un tantino dilatata (50 minuti), che diluisce la fascinazione, ma in chi è parte della comunità dei lavoratori dello spettacolo nasce un sentimento di tenerezza e rispetto per tutte quelle figure professionali che in scena non si vedono ma che permettono le condizioni giuste a chi invece sul palco ci sale. E bello è quel nastro di titoli di coda che scorrono proiettati, composto dall’elenco di tutti i pezzi utilizzati: x sagomatori, x proiettori, x par, x americane, x quinte armate, x domino, x piazzati…
E tante, tante cantinelle.
Viene naturale collegare il lavoro di OHT con lo spettacolo The Mountain di Agrupación Señor Serrano (portato poi a Milano da Zona K) perché ancora si parla di finzione, di apparati scenici e comunicativi e di cosa sia la verità (se mai sia possibile stabilirlo). Il gruppo catalano interseca in questa “montagna” tre piani: la cronaca della spedizione dell’inglese George Mallory sull’Everest, la spregiudicata invenzione radiofonica La guerra dei mondi (dal libro di H.G. Wells) con cui Orson Welles sconvolse gli Stati Uniti, e la manipolazione comunicativa che Vladimir Putin esercita per costruire la propria verità.
La compagnia presenta uno spettacolo articolato, pensato, costruito con estrema cura e attenzione, e aggiunge un elemento di crescita rispetto alla propria riconoscibile cifra e cioè l’utilizzo di modellini (maquette, si sarebbe detto un tempo) che rappresentano le situazioni oggetto del lavoro, mossi in diretta dalle mani artigiane dei due autori, Àlex Serrano e Pau Palacios, questa volta coadiuvati anche da David Muñiz, e poi ripresi in diretta con telecamere e proiettate su schermi: in The Mountain c’è la presenza – vivacissima – dell’ottima Anna Pérez Moya, attrice di forte presenza e costante ironia che ci guida su un sentiero irto di trabocchetti.
L’intreccio dei tre piani analizzati intende indagare come si possa provare a distinguere tra verità e credenza, tra realtà oggettiva e provata e convinzione personale. Non è superfluo sottolineare quanto sia attuale porsi questi interrogativi, in un’epoca di eccesso di informazione, di “bolle” social in cui non si fa che rinfrancare le proprie opinioni selezionando le notizie che ci presentano il mondo come noi ce lo vogliamo rappresentare e trascurando tutto ciò che va in un’altra direzione. È uno dei tanti bias cognitivi che ha un nome preciso: cherry picking, ovvero pescare ad arte dal cesto solo le ciliegie che comprovano la nostra tesi.
Il ragionamento teatrale di Agrupación si avvale di documenti video in cui vediamo Orson Welles giovane che si dispiace ammettendo di aver sottovalutato gli effetti dell’esperimento War of the worlds (in cui si simulava la cronaca dell’arrivo di un’astronave aliena in un campo dell’Illinois) e lo stesso Welles, maturo, che dichiara invece quanto fosse prevedibile la reazione dei cittadini americani che a migliaia si misero in fuga e come lo scopo dell’esperimento fosse proprio dimostrare la facilità di “turlupinare” gli ascoltatori, sfruttando la credibilità del mezzo radiofonico.
La voce fuori scena di Amelia Larkins legge alcune lettere di Ruth, la moglie filosofa dell’esploratore Mallory, che tira in ballo George Berkeley, esponente dell’empirismo del ‘600 – noto per la massima Esse est percepi (Essere è percepire) – e che teorizzava la possibilità di affermare l’esistenza di qualcosa (per esempio il monte Everest) solo in presenza fisica dell’oggetto stesso; la studiosa cita anche il mito della caverna di Platone, in cui si ragiona sulla costruzione delle proprie credenze in base a proiezioni, ombre degli enti reali, dal buio di una grotta. Quesiti intellettuali affascinantissimi e che appassionano l’uomo dall’inizio della storia del pensiero, passando, in Italia, anche per Pirandello.
Il terzo anello di questa catena analitica (e senza dubbio quello più controverso) è una paurosa maschera digitale di Vladimir Putin (realizzata da Román Torre), proiettata in video e che parla tramite la voce contraffatta dell’attrice A.P. Moya, che come un ventriloquo presta le proprie parole al leader sovietico (o è il leader sovietico che prende in prestito il corpo di Moya?). Cosa dice il nostro amico Vladimir? Discetta con astuto candore di come si possa manipolare la verità a proprio comodo, creando un rapporto di fiducia con l’uditorio e rendendo così possibile far credere anche il falso, se presentato con abilità. La scelta di Putin è ovviamente una strizzata d’occhio al pubblico che aderisce immediatamente e con un sentimento di acritica fiducia (appunto) alla rappresentazione di un uomo di potere di cui gli occidentali ‘correct’ non si fidano e che è dato per assodato sia un mentitore.
The Mountain è uno spettacolo complesso, una struttura dialettica a più registri ma che risulta estremamente leggibile, grazie a un percorso ben montato.
Non ci sono prove fotografiche che Mallory abbia guadagnato la vetta dell’Everest; si sa che Orson Welles raccontò una frottola “spaziale”; Putin mente programmaticamente e la platea è disposta a credere, con un patto concordato, che gli attori in scena giochino a baseball anche se hanno in mano una racchetta da badminton: il teatro come volontà e rappresentazione.
UN TEATRO È UN TEATRO È UN TEATRO
performance di OHT | Office for a Human Theatre
regia e scena Filippo Andreatta
suono e musica Davide Tomat
voce Dania Tosi – canto “Beata viscera” di Pérotin
assistente alla regia Veronica Franchi
luci Andrea Sanson
design sonoro Claudio Tortorici
responsabile allestimento Ronni Bernardi/Andrea Colò
super-farfalla Alberto Favretto
fondali dipinti Paolino Libralato, Grafica Bruno-Venezia
in co-realizzazione con Squadra tecnica del CSC di Trento
produzione OHT, Centro Santa Chiara di Trento
co-produzione La Biennale di Venezia, Fondazione I Teatri di Reggio Emilia
THE MOUNTAIN
creazione Agrupación Señor Serrano
regia e drammaturgia Àlex Serrano, Pau Palacios, Ferran Dordal
performance Anna Pérez Moya, Àlex Serrano, Pau Palacios, David Muñiz
voce Amelia Larkins
musica Nico Roig
video-programmazione David Muñiz
video-creazione Jordi Soler Quintana
spazio scenico e modellini in scala Lola Belles, Àlex Serrano
assistente di scenografia Mariona Signes
costumi Lola Belles
design luci Cube.bz
maschera digitale Román Torre
produzione GREC Festival de Barcelona, Teatre Lliure, Conde Duque Centro de Cultura Contemporánea, CSS Teatro Stabile di Innovazione del Friuli – Venezia Giulia, Teatro Stabile del Veneto – Teatro Nazionale, Zona K, Monty Kultuurfaktorij, Grand Theatre, Feikes Huis
Biennale Teatro, Venezia
5 luglio 2021