ELENA D’ANGELO | Quest’anno Short Theatre abita CRATERE, spazio relazionale allestito all’interno di WEGIL e pensato per accogliere performance, incontri, dibattiti. Un luogo dove si interrompe la quotidiana relazione spazio_tempo e ci si immerge in una vasca di immagini e suoni.
Dopo il risuonare della voce di Sofia Jenrberg e lo stare del corpo di Loreto Martinez Troncoso (qui la prima parte di questo racconto) sulla parete, nel rettangolo di luce del proiettore, ci sono i bicchieri che abbiamo ricevuto all’ingresso. I nostri bicchieri di acqua-misto-nome che si accalcano per il posto in prima fila. Accanto un fornelletto da campeggio e un pentolino. Oggetti di un quotidiano spiazzante esposti in attesa di diventare strumenti di un rito. In ginocchio accanto a questo altare, Basile Dinbergs, artista visuale e performer, ci spiega cosa sta per accadere: scioglierà dei granuli di stagno nel pentolino e poi verserà il liquido dentro i bicchieri. Il contatto tra le gocce di stango e l’acqua sigillerà per sempre in minuscole lacrime di metallo il patto che ognuno di noi ha stipulato con l’artista, quando ha accettato di consegnare a un sussurro nel bicchiere l’intimità di un nome proprio.
Tutto si svolge con estrema lentezza, il tempo dell’ordinario si tramuta in straordinario e tutti assistiamo con una certa emozione al cambio di stato. Siamo chiamati uno ad uno a scegliere la lacrima del nostro bicchiere, e nel passaggio di testimone l’artista ci spiega la scelta di questo materiale: «Lo stagno è un metallo che sta scomparendo. L’uso che oggi se ne fa per la produzione dei nostri oggetti di tecnologia sta decretandone la sparizione: i microchip sono sempre più minuscoli e il loro recupero e riciclo sta via via lasciando il posto a un rassegnato abbandono. Questa caducità mi affascina – continua – con questa operazione sento di consegnare un briciolo di eternità a qualcosa che è destinato a scomparire». L’impatto emotivo di questo processo è strettamente legato alla poetica del dono: l’artista consegna un pensiero materico, non esclusivamente teoretico; l’oggetto d’arte diventa una pratica virtuosa che attiva nello spettatore un sentimento di comunione più che mai laica e libera.
La luce fuori sta calando. Si accendono i riflettori nella sala, il CRATERE è sempre più un luogo senza tempo, qualcosa sta cambiando nella percezione di ciò che ci circonda: tutti siamo dentro la stessa materia fluida che magicamente annulla le distanze, tutti siamo parte di un’unica entità che respira. Sarebbe potenzialmente possibile alzarsi in piedi e dire qualcosa, agire, compiere un atto, condividere.
Ma poi ecco lei, Allison Grimaldi-Donahue, poetessa, scrittrice e traduttrice. Ci consegna un opuscolo dal titolo A mouth covering a mouth: the women of gruppo 63, sulla copertina una donna con un lungo abito da cerimonia rosa shocking, i capelli acconciati al mo’ anni Settanta, si dirige energicamente verso il fotografo, intimandogli qualcosa a bocca spalancata: è la nonna di Allison. Questo dettaglio è essenziale per avvicinarci alla lettura dell’opuscolo poiché ci segnala in primis una genuina autoironia dell’autrice, poi ci rivela che l’atto della scrittura è un atto personale, in cui l’autobiografia e la finzione giungono a toccarsi in più punti, non senza procurare contusioni.
Allison legge a voce alta, per tutti noi, la storia del suo incontro con le scrittrici Alice Ceresa, Giulia Niccolai e Patrizia Vicinelli donne visionarie ed energiche, protagoniste spesso poco raccontate dell’avanguardia poetica degli anni Sessanta. La voce dell’artista si mescola a quella delle poetesse in un racconto vivace, a tratti ironico a tratti spietato.
L’appropriazione di una lingua passa sempre per un atto di mutilazione e procede con successivi aggiustamenti che via via intervengono sulla stessa nostra identità, rimescolando quanto di noi abbiamo conosciuto o pensiamo di conoscere. Così Allison, abbracciando la lingua italiana compie un atto sacrificale che «smantella il rito privato del nostro linguaggio».
È tempo di abbandonare CRATERE e uscire nuovamente fuori. Defluire da quello spazio sembra una lenta rinascita.
Sul piazzale ci aspetta Anne-Lise Le Gac, artista e performer che con Dinbergs ha curato l’istallazione di CRATERE. La giovane artista ci confessa: “Non volevamo dare un titolo alla nostra performance. Volevamo lasciare un trattino bianco in modo che fossero gli spettatori a decidere che nome dare a questa esperienza. Ma era necessario farlo, così dopo lunghe riflessioni abbiamo scelto la parola Spacco, proprio a indicare una linea che separa ma allo stesso tempo un luogo dove qualcosa può fiorire. Uno spazio di possibilità”. L’artista ci parla con sincerità del suo desiderio di oltrepassare lo “spacco sociale” che si è creato a causa della pandemia che da quasi due anni sta pericolosamente allontanando gli individui gli uni dagli altri. Lo spacco, inteso come frattura in questo senso, come confine invalicabile che allontana e che ci obbliga – dice – “a stare seduti a un metro di distanza”. Allo stesso tempo, però, lo spacco è il bacino d’aria necessario affinché la scintilla possa diventare fuoco e poi incendio. Lo spacco come distanza da riempire creativamente. Un’intuizione che i due artisti portano avanti con convinzione ed energia da diversi anni: una tecnica semplice e intuitiva che si trasforma in un potente atto poetico.
Così, sugli “spacchi” nel cemento che ricopre la Piazzetta del WEGIL eccoci tutti a far colare lo stagno fuso per poi regalarci degli impossibili monili.
A MOUTH COVERING A MOUTH: THE WOMEN OF GRUPPO 63
di e con Allison Grimaldi-Donahue
SPACCO
ideazione di Anne-Lise Le Gac e Basile Dinbergs
produzione Short Theatre 2021 con il supporto della Fondazione Nuovi Mecenati – Fondazione franco-italiana di sostegno alla creazione contemporanea
3 settembre alle 2021
Spazio WEGIL – Roma
per Short Theatre 2021