ROSSELLA PICCARRETA | È una catabasi nei sotterranei dell’anima la visione dello spettacolo Il grande inquisitore, trasposizione teatrale dell’apologo e di alcuni passi del romanzo I fratelli Karamazov di Dostoevskij. È l’ultima bella prova della Compagnia del Sole. Non è la prima volta che la regista e drammaturga Marinella Anaclerio si cimenta con i capolavori della letteratura di ogni tempo.
Criterio di scelta di opere diversissime tra loro è lo spessore etico dei temi, occasione di riflessione sull’umano, sulla responsabilità individuale, sul divino, sul bene e il male. Si pensi a Gli Eneadi, all’Odissea, al Menone platonico, a Orlando pazzo per amore, al pirandelliano 2 ma non 2, fino al più moderno Love & money, per citarne solo alcuni. E poi ancora ai testi di Dostoevskij, portato in teatro con Le notti bianche e con I Karamazov, di cui gli spettatori di allora conservano ancora memoria.
Nel suo percorso di ricerca la regista sperimenta e attraversa, pur nel rispetto del codice recitativo della grande tradizione teatrale, differenti pratiche della scena: dalla commedia dell’arte al dialogo platonico, dal teatro classico alla narrazione.
Ne Il grande inquisitore si conferma la sua conoscenza profonda di un autore denso e complesso, restituito con intelligenza alla vitalità del teatro.
Incontriamo le parole di Fëdor nel foyer dell’Anche Cinema di Bari dove il 17 ottobre è stato rappresentato o spettacolo dopo il debutto del giorno prima a Monopoli.
Un flash mob precede messa in scena vera e propria: alcuni allievi del corso di teatro, per attori professionisti e non, tenuto dalla compagnia, raccontano agli spettatori pezzi di vita dell’autore.
Leggono passi di suoi testi e le lettere alla moglie o al fratello. Scopriamo l’ossessione patologica per il gioco, le inquietudini, l’attaccamento spasmodico alla vita, malgrado tutto. E infine Freud: «I Fratelli Karamazov sono il romanzo più grandioso che sia mai stato scritto, l’episodio del Grande Inquisitore è uno dei vertici della letteratura universale, un capitolo di bellezza inestimabile».
Entriamo in teatro con i pensieri dell’autore che ancora ronzano in testa.
Sul fondo nero del palcoscenico campeggia un grande telaio di legno che cambia colore al mutare delle luci e si trasforma all’occorrenza in una porta a due battenti o in una quinta. Un dedalo di fili riproduce i grovigli della mente. E lì, inchiodati, fogli sparsi, riflessioni, appunti, memorie. Labirinti dei sotterranei dell’anima.
È l’essenziale ed elegante scenografia di Francesco Arrivo, evocativa nella sua semplicità.
In primo piano un tavolo, una sedia, uno sgabello. In legno, semplici, monacali. E poi più nulla, a parte una bottiglia e due bicchierini da rosolio.
In questo angolo di una taverna russa, spazio tanto domestico quanto surreale, si muovono i personaggi, due dei fratelli Karamazov, ben interpretati da un potente Flavio Albanese, mattatore esperto, capace di dare corpo e vita ai tortuosi pensieri di Ivàn, e dal più giovane Tony Marzolla, già da qualche anno nella compagnia, che nei panni di Aleksej, recita bene con una cifra volutamente più dimessa, coerente con la psicologia del personaggio.
Paiono davvero fratelli, così somiglianti eppure così diversi, come sanno essere solo due fratelli veri.
Un aspirante monaco, Aleksej, convinto dell’esistenza di Dio e desideroso di vivere per l’immortalità e senza compromessi, e un intellettuale ateo, Ivàn, percorso dalle inquietudini e dai grandi interrogativi sulla vita.
Si gioca tutto sui contrasti. Sono le rette parallele di cui parla Ivàn, opposti nel pensiero, nello stile recitativo e negli abiti scelti dalla costumista Stefania Cempini. Il biondo angelico Aleksej in un’austera tunica nera, l’inquieto e arruffato Ivàn in giacca e farsetto di velluto marrone. Si confrontano a colpi di parole, sorseggiando bicchierini che immaginiamo alcolici. Discutono sul peccato, sul bene e il male, su cosa sia l’amore e se si possa davvero provarlo per l’umanità, se poi non si è capaci di affetto e cura per i singoli e i nostri più vicini.
Aleksej è illuminato dalla fede e dall’amore per il prossimo, ma tentenna davanti ai ragionamenti stringenti del fratello. Ivàn non sa accettare le incongruenze del mondo eppure è tenacemente innamorato della vita.
L’uno si rivolge al pubblico, all’inizio e alla fine dello spettacolo. L’altro è tutto chiuso in se stesso nelle sue inquietudini. Atroci i racconti sui bambini. Feroce e struggente il bacio finale tra i due.
La potenza delle riflessioni dell’autore russo emerge senza fronzoli in una regia pulita, minimale nelle azioni sceniche e significativa nei gesti, nella padronanza dello spazio e nel gioco di pause e contrasti.
La forza dello spettacolo è nella parola e nella bravura di chi la interpreta, ma anche nel sapiente gioco di chiaroscuri del light designer Cristian Allegrini.
La luce diventa drammaturgia. Gioca col buio e coi toni caldi e freddi. Sa farci vedere il diavolo nelle ombre mefistofeliche sul volto di Ivàn o nell’ambra del fondale, da nero a corrusco come fiamma d’inferno. O riesce a farci protagonisti della scena coi proiettori improvvisamente puntati sul pubblico, a illuminare le nostre crepe, a ricordarci che i fratelli Karamazov, in realtà, siamo noi.
Usciamo dal teatro in silenzio, incapaci di riempire con le chiacchiere i minuti di raccoglimento quasi liturgico che seguono alla visione dello spettacolo.
Restano il desiderio di rivederlo, per recuperare qualche passaggio perso nel fiume di parole. E la voglia e l’urgenza di andarci a rileggere le pagine di Dostoevskij. E alcune frasi inchiodate nella testa: «Tutto è permesso». «Il peccato è tutto ciò che non è necessario». «L’uomo non vuole Dio, vuole il Miracolo ». «L’uomo ha davvero inventato Dio… strano che l’idea della sua esistenza abbia potuto infiltrarsi nella mente di un animale così selvaggio e cattivo».
IL GRANDE INQUISITORE
Da “I fratelli Karamazov“ di F.M. Dostoevskij
con Flavio Albanese e Tony Marzolla
drammaturgia e regia Marinella Anaclerio
impianto scenico Francesco Arrivo
costumi Stefania Cempini
disegno luci Cristian Allegrini
assistente progetto Loris Leoci
grafiche Giuseppe Magrone
organizzazione Dario Giliberti
comunicazione Marilù Ursi
produzione Caterina Wierdis