IDA BARBALINARDO | Nel 1956, Italo Calvino pubblica Fiabe italiane, raccolta di 200 testi destinata a riportare alla conoscenza diffusa favole popolari, “traducendole” nella nostra lingua nazionale dai vari dialetti: tra i tanti racconti figura Giovannin senza paura. É la storia di un giovane girovago che, non avendo alternative, accetta di passare una notte in un castello in cui chiunque abbia pernottato è stato poi ritrovato morto al mattino. Giovannino, con il coraggio di chi non conosce timori, si approccia a questo soggiorno come alla sfida della vita e ne esce effettivamente vincitore, rompendo l’incantesimo che causava quella catena di morti.
A inizio Novembre 2021, a sessantacinque anni da quella pubblicazione, è andato in scena al Teatro TaTÀ di Taranto Giovannin senza parole, anteprima nazionale della nuova produzione del Crest, cooperativa teatrale nata nel ‘77, da sempre impegnata nel coinvolgimento dei giovani e nella creazione di lavori che abbiano al tempo stesso funzione culturale e sociale.
Tale finalità si è poi rafforzata a partire dal 2009, quando il gruppo ha incominciato ad abitare il TaTÀ, teatro situato nel rione Tamburi, noto per la sua prossimità all’ex Ilva e per le questioni legate alla salute pubblica dei suoi abitanti.
Seconda tappa della rassegna domenicale di teatro ragazzi favole&Tamburi, Giovannin senza parole ricalca in qualche misura la fiaba inserita nella raccolta calviniana. Per quanto le due storie riportino trame ed epiloghi differenti, presentano infatti similitudini che vanno oltre la somiglianza dei titoli: entrambe si sviluppano intorno a una figura, quella di Giovannino, che giunge casualmente in luoghi non conosciuti e le cui azioni costituiscono il motore del cambiamento di uno stato di cose che permane da tempo.
Nel caso della produzione del Crest, le vicissitudini con cui il protagonista (Nicolò Toschi) si confronta, sono quelle di un paese in cui vige una dittatura che regola tutto, perfino il linguaggio: il Grande Capo (Andrea Bettaglio), le cui fattezze da gigante rimarcano la sua superiorità gerarchica, si serve di una macchina correggi-parole, con la quale modifica a suo piacimento l’eloquio dei sudditi (Nicolò Antioco Ximenes e Catia Caramia). Con l’arrivo di Giovannino però, una serie di equivoci interverrà a sconvolgere i piani del dittatore, fino alla graduale perdita del controllo esercitato sul paese.
Sulla scena campeggia una serie di parallelepipedi grigi, che vengono spostati o disposti a seconda delle necessità drammaturgiche: in questo spazio gli interpreti si muovono con fare goffo e clownesco, gesto espressivo sul quale si modella la stessa cifra recitativa.
Tale impianto scenografico risulta ben costruito, funzionale a rappresentare i vari ambienti in cui la storia si compie. Esso evoca chiaramente la rigidità monolitica in cui il paese è immerso, richiamata anche dai ritmi meccanici, quasi da catena di montaggio che scandiscono lo spostamento dei blocchi grigi.
A cadenzare e raccontare questo dualismo tra l’impostazione buffonesca e il rigore imperante, intervengono i suoni degli strumenti utilizzati dallo stesso Giovannino e dai due sudditi, oltre a quelli prodotti dal tecnico del suono, Roberto Cupertino. Una polifonia in parte suonata e in parte registrata che si sviluppa, in particolare, nei momenti dalle tonalità gravi e profonde che coinvolgono il Grande Capo.
Riempita da tale impianto acustico, l’intera geografia scenica è poi inquadrata dal disegno luci di Michelangelo Campanale, in un setting che ricorda gli show di stand-up comedy americani: riflessi freddi dei fari puntati dall’alto e dal basso s’intersecano trasversalmente e contribuiscono a conferire un tono asettico all’ambiente.
Quello rappresentato sul palco diventa così un non-luogo che, attraverso tutti gli elementi che lo compongono, funge da simbolo dell’annullamento della libertà individuale che caratterizza gli autoritarismi. Non sembra un caso, allora, che il colore prevalente sia il grigio: grigia la scenografia, grigi i costumi indossati sia dai sudditi (tute da lavoro, scarponcini ed elmetti da operaio) che dal dittatore (lungo cappotto doppio petto e grande cappello cilindrico).
È Giovannino a costituire l’eccezione, l’espediente per innescare il contrasto: si presenta sulla scena completamente vestito di rosso, tanto che verrà ben presto aiutato a cambiarsi affinchè si adegui alle norme vigenti.
Una dicotomia cromatica che risulta rilevante ai fini del dispiegamento del plot, in quanto emblematica del divario tra i sudditi e il protagonista: il grigio – espressione dell’assenza di colore nelle esistenze sottoposte a uno stato di oppressione – e il rosso – tonalità intensa, simbolo di vitalità. Giovannino, infatti, anche nella nuova veste, si presenta macchiato di rosso sulle estremità dei pantaloni e sulle scarpe, a richiamare la sua non-conformità al contesto.
Proprio questa non-conformità mette in moto l’equivoco fondamentale: il giovane s’impossessa erroneamente del grafema “H”, generando distorsioni linguistiche che, nonostante i tentativi del Grande Capo di arginarle vietando l’utilizzo della lettera, porteranno via via all’inevitabile declino del regime. Con il progressivo coinvolgimento dei sudditi negli errori bonari commessi da Giovannino, il dittatore rimane letteralmente in mutande mentre tutti festeggiano la ritrovata libertà.
Un lavoro, questo Giovannin senza parole, che ha il pregio di una costruzione registica efficace giocata sulla polisemia dell’intreccio fra gioco di luci, suoni e colori. Dovrà crescere con l’andare delle repliche il ritmo recitativo che, in alcuni frangenti, non regge appieno la vis comica che lo spettacolo si propone di avere. Sarà necessario, in particolare, un rodaggio sul piano dell’espressività mimica della figura del protagonista, immaginato dalla regia come personaggio muto, senza voce, proprio come l’H con cui sconvolge le regole del reame.
La rappresentazione riesce comunque nell’intento di consegnare il proprio messaggio allo spettatore. È uno spettacolo sulla centralità delle parole, il cui potenziale semantico e rivoluzionario non può essere limitato, pena l’invalidamento della possibilità non solo d’intendersi ma anche di dare consistenza al mondo, altrimenti impossibile da raccontare in tutte le sue sfumature.
GIOVANNIN SENZA PAROLE
drammaturgia di Catia Caramia
regia di Andrea Bettaglio
aiuto regia Catia Caramia
con Nicolò Antioco Ximenes, Andrea Bettaglio, Catia Caramia, Nicolò Toschi
costumi Maria Martinese
musiche Nicolò Toschi
tecnico luci Michelangelo Campanale
tecnico del suono Roberto Cupertino
tecnico di scena Vito Marra
responsabile di produzione Sandra Novellino
Teatro TaTÀ, Taranto
7 novembre 2021