PAOLA ABENAVOLI | La costruzione di un crescendo di tensione, come un accumularsi di polvere, un’atmosfera che pian piano diventa insostenibile, una violenza psicologica sempre più insopportabile, aveva colpito già il pubblico teatrale, scuotendolo, facendolo entrare in quel dolore, in quella tensione, in quella claustrofobica situazione nella quale si viene a trovare la protagonista: adesso, quelle stesse atmosfere vengono portate sul grande schermo, nella versione cinematografica di Polvere. Lo spettacolo che Saverio La Ruina ha scritto nel 2015, diretto ed interpretato – allontanandosi per un attimo dal teatro di narrazione e portando in scena una pièce con due protagonisti, forte, intensa, che non può lasciare indifferenti – diventa un film, come sta accadendo, negli ultimi anni, per molti spettacoli. Chi parla, in questi casi, di “impianto teatrale” etichetta, però, queste produzioni, quasi fossero una pedissequa ripresa della rappresentazioni così come andate in scena. In realtà, ciò che nella stragrande maggioranza dei casi muove gli autori è la lettura di un testo attraverso un nuovo e differente linguaggio, la possibilità di trasmettere una storia, una performance, un’idea, seguendo dettami e utilizzando strumenti molto diversi, pur ottenendo lo stesso risultato.
Il regista Antonio Romagnoli utilizza strumenti filmici, linguaggi che si intersecano, riprese differenti per ogni quadro che compone il dramma. Una coppia, seguita dalla sua nascita, con i primi sintomi della personalità di lui, del suo modo di insinuarsi, sottile ma preciso e determinato, nella vita di lei. Una tensione, un’atmosfera che viene ricreata grazie anche alle interpretazioni: il dolore, lo stupore della protagonista, reso sullo schermo con grande intensità da Roberta Mattei (Non essere cattivo, Veloce come il vento), e Saverio La Ruina, che sa costruire un personaggio inquietante, con un crescendo di violenza psicologica, di sopraffazione che si fa strada nei discorsi.
Un lavoro minuzioso, realizzato prima per il teatro e che adesso si trasferisce sullo schermo, mantenendo intatta l’atmosfera di disagio e il tentativo di dominio: il telefonino come strumento indagatore dell’anima, oltre che mezzo per creare linguaggio e ritmo cinematografico; la penombra nella quale il protagonista parla, scrutando un quadro, ma in realtà guardando in macchina e dunque lo spettatore, quasi sfidandolo; i dialoghi che non trasferiscono fissità ma consentono invece di entrare sempre più in quella scena, in quel rapporto malato, di sentire ogni sentimento o tremore dei personaggi.
Un ulteriore passo, un elemento aggiuntivo è quanto rappresenta questo differente linguaggio, che non snatura e non si limita alla riproduzione di quanto visto sulla scena.
Non teatro in video, ma qualcosa di profondamente differente: è cinema, che prende le mosse dal teatro, per ripercorrere quei sentimenti, quelle emozioni e farne materiale filmico.
Come Quasi Natale, della Compagnia Teatridilina, una delle trasposizioni più riuscite, in cui lo spettacolo teatrale, nel suo ritmo rodato, diventa quasi naturalmente immagine filmata: narrazione che fa, dell’immagine stessa, linguaggio.
E così tanti altri: in questi ultimi due anni in particolare, questo aspetto è emerso con forza. Dopo l’exploit della Mostra del cinema di Venezia 2020 – con, su tutti, Emma Dante che ricostruisce totalmente Le sorelle Macaluso in versione teatrale per dare vita al cinema a una storia per molti versi differente e che pone in evidenza anche altri sentimenti, altri particolari, giocando con più forza sull’immagine – portare sul grande schermo testi già apprezzati sul palcoscenico è divenuta quasi una tendenza, ma forse anche più di questo.
È diventato un modo per guardare sempre più al teatro, narrandone i personaggi (vedi Mario Martone e Sergio Rubini, che hanno analizzato la storia di Eduardo Scarpetta e dei fratelli De Filippo) per scandagliarne i meandri, persino per riaprire dibattiti su autori e testi memorabili (come nel caso del Natale in casa Cupiello versione televisiva, portato su Raiuno da Edoardo de Angelis, che ripeterà l’esperienza questo Natale, con Non ti pago e Sabato, domenica e lunedì).
Tanti esempi, si diceva: le produzioni degli ultimi mesi, come Il silenzio grande, di Alessandro Gassmann, che reinventa cinematograficamente l’immaginario del protagonista, materializza i suoi sogni; e ancora, Filippo Timi con Preghiera della sera, Martinelli e Montanari, la sperimentazione tra cinema e teatro di Milo Rau. Senza contare le contaminazioni che stanno caratterizzando le opere liriche, anche queste divenute film (sempre Martone, ma anche il Rigoletto messo in scena al Circo Massimo da Damiano Michieletto). Fino al teatro che diventa serie tv, come nel caso di Lehman Trilogy.
Nuovi linguaggi, dunque: e nuove direzioni, che non snaturano l’essenza dei testi e verso le quali si indirizza, a buon diritto, anche Polvere.