La barriera è chiusa.
Due tocchi al trucco. Il campanello squilla: la prima e la seconda volta.
La tela si leva.
Ecco le piccole stelle. Ecco il baratro. Ecco l’attore. 

ILENA AMBROSIO | Eduardo attore, drammaturgo, capocomico. Eduardo imprenditore, personalità pubblica e “politica”. Eduardo fratello, marito, padre. È il ritratto, accurato e poetico, di un uomo poliedrico caparbio, dotato di sensibilità complessa e di acuta intelligenza quello che un Lino Musella in stato di grazia traccia nel suo Tavola tavola, chiodo chiodo…, progetto avviato con il sostegno di Tommaso De Filippo, figlio di Luca. Un pastiche – come lui l’ha definito – realizzato con un taglia e cuci tra documenti pubblici e privati, lettere, interviste, dal quale è scaturita una drammaturgia densa, a tratti onirica, modernissima nella sua struttura eppure intrisa di un qualcosa di antico, come una sapienza d’altri tempi. Un susseguirsi di immagini, ricordi, voci – quelle di Scarpetta, Pirandello, Peppino, Thea Prandi – calato in una scena che si plasma con l’agire dello stesso interprete, che risuona del suo dire equilibrato ma appassionato, sapiente, immediato, inframmezzato dalle musiche dal vivo di Marco Vidino.
Quella di Musella è un’operazione elegante, curatissima e quanto mai necessaria, perché apre le porte su un’immagine di Eduardo forse poco frequentata ma capace di raccontare qualcosa che ancora ci appartiene e di dimostrare con l’evidenza di una portentosa maestria da grande attore cosa significhi accogliere per una vita la responsabilità di fare teatro.

Lino, il filone principale della tua drammaturgia è quello che racconta la travagliata vicenda del San Ferdinando di Napoli la cui ricostruzione dopo un bombardamento nel ‘43 fu per De Filippo causa di debiti e problemi finanziari. Abbiamo avuto il privilegio d vederti proprio in quel teatro. Quanto è stato speciale per te calcare quella scena e cosa ti stanno invece restituendo i vari pubblici?

Devo dire che è sempre diverso, ogni città sta presentando degli aspetti particolari. Di certo il San Ferdinando ha qualcosa di irripetibile, ma lo ha anche portare la storia di Eduardo in altre città.
Chiaramente a Napoli vai a parlare di qualcosa che appartiene a tutti noi, quindi anche chi non fa teatro riconosce qualcosa che è insito nella propria cultura, nelle proprie origini. A Napoli tocchi un santo, un minimo comune denominatore. Ma la grande sorpresa è stata di potersi servire ovunque di Eduardo per attivare una riflessione sul teatro.

Cosa ti ha spinto a intraprendere questo progetto che non è solo drammaturgico ma a tutti gli effetti storiografico?

È un progetto nato durante il lockdown per un primo input di Tommaso De Filippo, nipote diretto di Eduardo, che, dalla morte del padre Luca, gestisce i diritti dell’opera eduardiana e la Fondazione. Lui ha amato molto un mio spettacolo distribuito dalla compagnia Elledieffe L’amore nun’è ammor, riscrittura in napoletano dei Sonetti di Shakespeare. Così in quei mesi di chiusura mi chiamò per propormi di fare un’operazione simile sulle poesie di Eduardo; di certo consapevole del fatto che sarebbe stato un lavoro che, per il tema e perché un assolo, mi avrebbe dato la possibilità di girare.
Io però lo richiamai con una controproposta perché anni fa avevo letto il libro di Maria Procino, Eduardo dietro le quinte, che racconta la figura di Eduardo impresario: la sua avventura con il San Ferdinando, il rapporto con il Ministero, i primi anni con la Compagnia di teatro umoristico… C’erano tante cose di quel libro che mi avevano ispirato e che durante i primi mesi di pandemia mi erano tornate alla mente.
Volevo affrontare il tema fuor di metafora perché Eduardo un lavoro metaforico a riguardo l’ha scritto, è L’arte della commedia. Ma a me interessavano i dettagli, volevo tirare fuori delle parole politiche di Eduardo perché sapevo che lui le aveva scritte. Tommaso allora mi presentò proprio Maria Procino, che è una loro amica di famiglia, e lei ha inizò a fornirmi tante carte… Fui letteralmente sommerso dalle carte: questo lavoro è frutto di mesi di ricerca e di studio.
Ed è stato un lavoro lungo anche per arrivare a sintetizzare delle cose, per restituirne solo il senso. Per esempio la vicenda dello Stabile è un’avventura assurda per la quale stavo per aprire un paragrafo a parte ma poi l’ho concentrata in una barzelletta perché quello era stato, una presa in giro.
Oppure ci sono cose che evoco soltanto perché Eduardo non ne ha voluto parlare della morte della figlia e allora per me resta un orsacchiotto di peluche da accarezzare.

Ci sono due cose del tuo lavoro sulla messa in scena che credo valga la pena di evidenziare. Innanzi tutto un senso di artigianalità che apparteneva fortemente al fare teatro di Eduardo e che tu hai riportato in scena facendo cose durante tutta la rappresentazione, lavorando al modellino del San Ferdinando/presepe, costruendo pezzi di scenografia. Che valore hai dato a questo aspetto?

Io mi diverto a parlare di un dualismo tra artigianato e negromanzia, che è poi ciò che si realizza a teatro. Perché, da un lato, c’è un attore che deve mantenere i piedi sul palco, istaurando un rapporto artigianale con il proprio lavoro, fino a prendere bene la luce; si tratta di un aspetto molto tecnico dello stare in scena. Ma, nello stesso tempo noi evochiamo dei mondi, il che è un po’ una magia.
Ma questa attitudine al fare e al costruire è anche una delle cose della storia di Eduardo che intercetto come appartenenti anche a me, al mio percorso. Da quando ho cominciato a studiare recitazione sono sempre stato anche tecnico; ora un po’ meno, non spessissimo, ma resta una mia abitudine. Considera che nella sera del debutto di uno degli spettacoli più importanti della mia vita, a Castrovillari, con tutti i critici in scena, io fino a cinque minuti prima dell’inizio ero su una scala.

Secondo te è una ricchezza per un attore, per il suo stare in scena, avere questa consapevolezza delle tavole e dei chiodi su cui cammina?

Se questa cosa non sposta la tua fantasia raffreddando l’interpretazione, se riesci a continuare a immaginare nonostante la coscienza che quella cosa l’hai tenuta in piedi tu cinque minuti minuti prima, se sei ancora in grado di sognare e conservare l’aspetto più spirituale del tuo lavoro allora è utile ed è una ricchezza.

L’altro aspetto sorprendente della tua interpretazione è il modo in cui hai vestito i panni di Eduardo. C’era il rischio di far venir fuori una macchietta o un’imitazione e invece hai dato vita a una rievocazione assolutamente credibile, facendo tue movenze, inflessioni vocali, espressioni. Che tipo di lavoro hai fatto per essere Eduardo in quel modo? Come l’hai fatto entrare dentro di te?

Parto dal dire che, in un lavoro come questo che è fatto di scrittura di scena, che è fuori da un’azione drammatica, non esiste personaggio, esiste l’attore che viene attraversato da parole e attraversa lo spazio. A volte, senza aver visto lo spettacolo, mi chiedono cosa accade in scena… In questo caso è difficile dirlo.
È vero, però, che io devo farmi attraversare da diverse voci, devo essere una presenza che il pubblico deve percepire come capace di passare da una cosa all’altra, altrimenti risulterebbe macchinoso.
A me sembra che per essere in scena in quel modo io abbia liberato ciò che di Eduardo si era accumulato dentro di me. Probabilmente c’è stato anche qualche altro lavoro nel quale ho dato spazio a quel tipo di memoria, di impressione che ho rubato guardando le sue commedie, i suoi film, le sue interviste. In questo caso io ho lascito andare del tutta quella zona che credo abbia comunque contagiato la mia personalità attoriale. È qualcosa che sentivo già dentro di me, quindi, invece di stare centrato sulla mia personalità, ho lasciato uscire quel bagaglio.
E poi, c’è da dire che, anche in quel due per cento di interventi miei, inseriti per legare o sciogliere il testo, io dico le parole di Eduardo, tratte da interviste, appunti che io ho usato per comporre il pastiche che sarà la narrazione, ma tutto ciò che io dico sono parole sue, quindi è normale che esca fuori anche un po’ un modo, essendo il suo.

L’Eduardo che viene raccontato, evocato, non è solo l’attore, ma anche, soprattutto, l’imprenditore, il capocomico, il marito, l’uomo pubblico; vengono raccontati il suo rigore, il suo impegno civile, e il suo impegno in difesa dell’arte e del teatro. Quanto hai sentito tuo tutto questo e quanto è stato importante dirlo ora?

In questo lavoro Eduardo più che evocato viene invocato. È stato detto tanto in questi ultimi due anni, molti colleghi si sono prodigati, si sono mobilitati, ma le grandi personalità del teatro sono state piuttosto silenziose. A me è venuto più di una volta da pensare “Peccato sia morto Ronconi, chissà cosa avrebbe detto”. Ho sentito un grande silenzio, percepito tanta confusione. Quindi io le parole di Eduardo le ho recuperate per sopperire a una mancanza di voci affermate che prendessero una posizione. In un certo senso ho “usato” Eduardo per dire delle cose che sentivo fondamentali.
Ma la cosa alla quale mi sono sentito più vicino e alla quale volevo avvicinare tutti era l’Eduardo fallimentare. Eduardo è stato uno che ha sofferto e anche perduto; è stato vessato dalla città di Napoli. C’è un grande fraintendimento sulla famosa frase che disse ai giovani napoletani “fujitevenne a Napoli”: non lo disse per la camorra, per la povertà… Lui conosceva benissimo tutto questo, ci era nato dentro, sapeva che erano parte del tessuto sociale della città. Il suo “fujitevenne” si riferiva alla politica, alle amministrazioni. 

Però non è mai venuto meno alla responsabilità del suo ruolo. Tu hai deciso di concludere con la speranza, con uno sguardo al futuro. E allora questo senso forte di responsabilità, non solo come artista ma come uomo, cosa può lasciare al futuro? C’è davvero una luce?

Quel finale è nato da un profondo studio della poetica eduardiana, una poetica che lui spiega molto bene rispondendo a quanti definivano i suoi testi intrisi di pirandellismo. Eduardo ribatte spiegando la differenza tra lui e Pirandello e, facendolo, spiega la sua poetica. Lui riconosce in Pirandello un suo suo maestro, come lo erano Scarpetta e Viviani. Pirandello era per lui il più grande autore in assoluto, un genio. Ma, spiega, tra lui e Pirandello c’era una profonda differenza e cioè che Pirandello con il suo genio distrugge: i rapporti, la società, distrugge la logica persino, distrugge l’individuo. Il mio teatro invece, dice, fa critica di costume e quindi va a pungolare, a stuzzicare, a criticare l’individuo, ma è un teatro che vuole ricostruire. È un teatro di fede, di fede in tutto.
Quella speranza, allora, è un suo messaggio.
Io non so se tra qualche anno sarò più pirandelliano ma al momento parteggio assolutamente per questa poetica.

Ma forse è più semplice distruggere; è più semplice essere disperati, anche se è più triste. È avere speranza che richiede più fatica. 

Forse hai ragione. Io amo la parola speranza per come la intende Eduardo perché è sempre il nonostante tutto. Nelle sue commedie racconta di individui che subiscono, soffrono, arrancancano, ma la speranza sta in quel nonostante tutto. Ha da passà ‘a nuttata. 

 

TAVOLA TAVOLA, CHIODO CHIODO…
tratto da appunti, corrispondenze e carteggi di Eduardo De Filippo

di e con Lino Musella
musiche dal vivo Marco Vidino
scene Paola Castrignanò
disegno luci Pietro Sperduti
ricerca storica Maria Procino
collaborazione alla drammaturgia Antonio Piccolo
assistente alla regia Melissa Di Genova 
foto di scena Mario Spada 
produzione Elledieffe, Teatro di Napoli – Teatro Nazionale

In esergo: dalla scena 18 di Tavola tavola, chiodo chiodo… tratta dal prologo all’edizione cartacea di Sik-Sik: l’artefice mago.