LAURA NOVELLI | Tre figli adulti, una madre ultraottantenne piuttosto sui generis, un annuncio funereo e spiazzante, un diffuso desiderio di contribuire alla sopravvivenza della nostra specie ed ecco qua che la vita precipita in quello spazio-tempo sospeso in cui guardiamo al passato per eludere il presente o, peggio ancora, cerchiamo soluzioni (impossibili) per agire nell’hic et nunc al solo scopo di fuggire il futuro.
È un testo complesso, sghembo, colto, acremente ironico, persino funambolico quello che Lucia Calamaro ci regala in Darwin inconsolabile (un pezzo per anime in pena), di scena al Teatro India nei giorni scorsi con la regia della stessa autrice ed egregi interpreti quali Riccardo Goretti, Gioia Salvatori, Simona Senzacqua e Maria Grazia Sughi, tutti perfettamente calati nei loro ruoli. Impossibile non ritrovare in questo lavoro – che ha debuttato l’estate scorsa al Festival di Spoleto – l’eco di fortunati titoli precedenti in cui il tema elettivo della drammaturga romana, la Madre, veniva declinato in spaesamenti e nevrosi filiali quanto mai condivisibili.
Qui però, con una briosa vertigine filosofico-ideologica oltre che psicanalitica, la Madre potrebbe rappresentare (il condizionale è d’obbligo) non solo la genitrice di tre personalità irrisolte che tentano di stabilire una vicinanza reciproca ormai tardiva ma anche – e tanto più – la Natura stessa. Quella Magna Mater di ascendenza classica divenuta oggi Matrigna per autodifesa. Giocoforza, dopo aver subito violenze e saccheggi dissennati, essa piomba ora sulle nostre esistenze come una minaccia apocalittica che annuncia una nuova estinzione post-antropocene.
Divisi tra la comune paura per i cambiamenti climatici fuori controllo (il maggiore “iperoggetto” teorizzato dal filosofo inglese Timothy Norton, qui diffusamente alluso, è d’altronde proprio l’emergenza climatica) e una controversa adesione ad altrettanto comuni “religioni” politically correct (il bio, il veganesimo, la sostenibilità, la teoria dell’interspecie, la conseguente fiducia nella comunione tra le energie vegetali e quelle umane), i quattro personaggi di questa piéce fanno insomma i conti con il nostro buio presente e ne sdoganano le inconsolabili (sic!) contraddizioni.
È tuttavia dal vissuto specifico di ciascuno di loro, dalla loro storia personale e familiare che essi si determinano come persone. Quasi che, nelle intenzioni dell’autrice, intimità e società, individualità e globalità viaggino di pari passo e in modo complementare. Tanto più che la situazione drammaturgica, calata in uno spazio vuoto e arioso che si riempe di volta in volta di pochi emblematici oggetti e risulta impreziosito dal caldo disegno luci di Stefano Damasco, esplode intorno a un nucleo tematico “scandaloso” tanto per i singoli quanto per l’umanità intera: la Morte. O piuttosto: il suo annuncio, la sua attesa, la sua teatralizzazione, la sua finzione. La tanatosi della madre – pratica diffusa nel mondo animale in base alla quale alcune specie si fingono morte quando fiutano il pericolo – è in fondo un modo quanto mai teatrale di esorcizzare la fine e, al contempo, di attirare su di sé le ingarbugliate tensioni emotive dei fragili figli: ancora dunque piano naturale e piano personale convivono/coincidono.
Se poi questo annuncio “catastrofico” avviene in un supermercato, i rimandi simbolici non possono che moltiplicarsi e stratificarsi. Già dalle prime, folgoranti battute, il testo della Calamaro parte in levare. Ci incuriosisce. Ci cattura. Ci spiazza facendoci (sor)ridere. Orgogliosamente appoggiato al suo carrello colmo di cibo, Riccardo, maestro elementare ancora alla ricerca di sé, monologa tra gli scaffali raccontando minuzie delle sue scelte gastronomiche. Gioia invece, artista plastica innamorata dell’Amazzonia (con degno riferimento all’attivismo di Chico Mendes), scarica la sua pseudo-rabbia ecologista sulle verdure avvolte nella plastica e la mania consumistica per le confezioni inquinanti. Poi arriva Simona, che di mestiere fa l’ostetrica, la più cauta, conciliante e remissiva del colorito gruppetto fraterno.
Tale supermercato – metafora del nostro dominio sulla Natura – rappresenta in realtà il palcoscenico che l’anziana madre, artista performativa con un debole per l’avanguardia anni ’60 e ’70, ha scelto per annunciare che morirà presto. Lo hanno decretato i medici. La sua fine è vicina. Persino imminente. Non è, tuttavia, la prima volta che i tre figli si trovano dinnanzi alla triste profezia. Motivo per cui Tommaso e Simona ostentano una certa incredulità, mentre Gioia precipita in uno stato di caotica ansia mista a paura e – forse perché “artista” ella stessa – costringe la madre ad un’ennesima performance site specific: le prepara un letto ricolmo di verdura in putrefazione (come non evocare le Teste Composte di Giuseppe Arcimboldo?) così da favorire un travaso “interspecie” di energie positive.
La bizzarra ottantenne, lieve e sfuggente nelle corde così naturalmente autoironiche della brava Sughi, si lascia cullare, accudire, chiede persino che le vengano portate al capezzale alcune delle sue opere più care. Evidente segno, questo, di una giustificabile nostalgia per il passato ma anche di un egocentrismo cieco che “confonde” l’Arte con la vita vera. D’altronde, è proprio la stratificazione di livelli interpretativi diversi ma connessi che rende Darwin inconsolabile un emblematico manifesto della “confusione” odierna, soprattutto di quella irreparabile rottura tra individualità e polis, tra senso del sé e senso della comunità (ne parla Umberto Galimberti in una densa lezione intitolata Vivere il presente), di cui questa progenie così vulnerabile ci consegna un ritratto inequivocabile nonché penoso. Perché tutti i personaggi in fondo sembrano perdere qualcosa in questo lavoro che è, anche, uno spettacolo (sapientemente diretto) proprio sulla perdita. Perdita di senso. Perdita di direzione. Perdita della famiglia. Perdita di sé. Perdita della Natura. Perdita di futuro.
E tutte queste perdite hanno a che fare con il rapporto tra l’io e il mondo: ecco su che campo si gioca, secondo noi, la partita di relazioni imbastite qui da Calamaro. In ballo ci sono l’io e il suo (dell’io) “primo” mondo, cioè appunto la Madre. Una Madre moribonda: la Natura è scompaginata; la mater familias è ammalata. Un perfetto rispecchiamento in cui, però, la morte stessa potrebbe non arrivare. La si verbalizza. La si teatralizza. La si teorizza. La si esorcizza in ogni modo. Ma essa crea di per sé una “pausa” temporale. Ed è proprio negli interstizi di quest’attesa che si insinuano le crisi personali (e ideologiche) dei tre figli: l’incapacità di Tommaso di crescere ed accettarsi; la smania combattente di Gioia e il circolo vizioso di autoconvincimenti in cui probabilmente non crede neanche lei. E poi c’è la pulsione autopersecutoria di Simona, vittima dei suoi sensi di colpa e di una menzogna che l’ha tenuta in vita per trent’anni (la storia di un misterioso manoscritto di Charles Darwin di cui la madre stessa le ha fatto dono e che lei crede autentico). E la menzogna più grande non è forse questo nostra stare al mondo “fuori” dal mondo? “Contro” il mondo? Anche la tanatosi della madre, la finta morte, non è anch’essa una sagace menzogna? Solo alla fine della piéce tale bugia diventa realtà: la morte arriva davvero ma non resta più tempo per raccontare il cordoglio.
Per fortuna, però, ci pensano l’ironia, l’arguzia, il ritmo teatralissimo di una scrittura che si appoggia sui personaggi con grande naturalezza a consolarci un po’. E l’autrice, da ieri di nuovo in scena a India con il monologo Smarrimento scritto per Lucia Mascino (a tal riguardo, l’intervista e la recensione di PAC), e in cartellone al Gobetti di Torino, sempre da ieri, con un altro assolo, Da Lontano (chiusa nel rimpianto), scritto invece per Isabella Ragonese, sa ancora una volta parlarci di noi: anime in pena, profughe, impaurite, confuse, fragili, forse persino patetiche.
DARWIN INCONSOLABILE
un pezzo per anime in pena
con Riccardo Goretti, Gioia Salvatori, Simona Senzacqua, Maria Grazia Sughi
scritto e diretto da Lucia Calamaro
assistente alla regia Paola Atzeni
disegno luci Stefano Damasco
luci Stefano Damasco
foto di Laura Farneti
Produzione Sardegna Teatro e CSS Teatro stabile di innovazione del FVG
con il sostegno di Spoleto Festival dei Due Mondi e del Teatro di Roma – Teatro Nazionale
Teatro India, Roma
11-23 gennaio 2022