ILENA AMBROSIO | C’è un aspetto del rancore che lo rende il più tossico dei sentimenti: la cronicità. Il rancore si protrae nel tempo, ma si alimenta giorno dopo giorno del rimuginio sul passato, sui torti subiti, su quella parola sgarbata, su quello sguardo sprezzante. Rilegge gli eventi, magari alterandoli, per giustificarsi e rafforzarsi. Un “uroboro” che si ciba di astio e risentimento, traendone l’energia per costruire muri che diventa impossibile abbattere.

Le Sorelle raccontate da Pascal Rambert sono proprio così. Due donne che per una vita si sono nutrite di rancore reciproco e si ritrovano a trent’anni, alla resa dei conti, a scagliarsi addosso i non detti, il non fatto, tutto il potenziale atomico rimasto inesploso, ingabbiato dentro due mondi emotivi distanti anni luce che, per un puro caso, hanno condiviso la vita.
Anna (Anna Della Rosa), la più giovane, giornalista sempre in giro per il mondo, piomba sul posto di lavoro di Sara (Sara Bertelà), che dedica la sua vita a missioni umanitarie.

La stanza di una conferenza illuminata da gelidi e ordinati neon è un campo di battaglia: quattro mura per contenere la detonazione. Le sedie colorate, che Sara dispone ossessivamente in fila, sono ostacoli che si frappongono tra le due, che riempiono lo spazio che le separa quando, spesso, si dispongono ai lati opposti della scena, quelli più distanti possibile: i grandi scontri, le impercettibili occhiate, i retropensieri maligni attribuiti all’altra, immaginati nell’altra, che hanno pungolato il proprio pensiero, giustificando rancori, delusioni, vittimismi… Con tutta una vita di odio in mezzo, andare l’una verso l’altra è impossibile.

Anna odia Sara per il suo ruolo da primogenita, per essere stata la prima a essere amata e poi stimata, dal padre; per i successi sportivi, per la ostentata sensibilità e adeguatezza, per le arie da pavone.
Sara odia Anna per questo odio, per la perenne disapprovazione e ostilità, per quel suo opporsi in tutto e per tutto a lei, per la sua ossessione di odiarla.

Si odiano, semplicemente, e con il senno ottenebrato rileggono, quasi rivivono, il passato a proprio modo, un modo che è sempre, come per principio, opposto a quello dell’altra, che rintraccia in ogni gesto dell’altra, in ogni microscopico dettaglio della vita familiare – un sorriso, un buon voto a scuola, una carezza del padre – la deliberata volontà di far del male, di emergere, di sopraffare: persino la comune e comprensibile curiosità di una bambina che si sporge sulla culla della neonata sorella minore diventa, nella percezione interiore, nella autonarrazione, ossessione, tentativo di omicidio.

Foto Luca Del Pia

Sara dichiara guerra senza mezzi termini: “adesso che sono di fronte a te sbloccherò tutto, sono venuta a sbloccare tutto, trent’anni dopo”. Un regolamento di conti come reazione all’ultima, inaudita, malignità della sorella che l’ha tagliata fuori dagli istanti finali della madre adorata e che la adorava, della quale immagina il delirio – lei stessa in preda a un dire delirante – la sofferenza insopportabile, la solitudine in ospedale con il culo pieno di merda e con l’urina che cola da tutte le parti.

È andata lì, un agguato sul posto di lavoro, per chiedere spiegazioni.
Parlano senza freni eppure non è un vero dialogo il loro. Certo, si danno il la l’un l’altra ma è per abbandonarsi a monologhi in cui vomitare senza freni… cosa? Parole.
Se l’autore avesse messo in scena un duello, una lotta fisica, una vera azzuffata, forse, non sarebbe stato altrettanto violento.
La parola è l’arma di queste due donne, arma che usano con indicibile cattiveria e con la precisione chirurgica di chi odia l’avversario ma, al contempo, lo conosce a fondo, ne conosce l’intera esistenza, i punti deboli, quelli in cui infilzare il coltello e girarlo nella carne sanguinante. Denigrano il lavoro l’una dell’altra con malefica sagacia; gettano l’aceto del sarcasmo sulle ferite sentimentali facendo dell’ex marito dell’una e della compagna dell’altra ulteriori strumenti di tortura; rivangano continuamente il rapporto con i genitori, con un padre, in particolare, la preferenza del quale (reale o immaginaria?) per la figlia maggiore continua a infettare le ferite.
Tutto vale in questa guerra in cui non c’è posto per nessuna delicatezza o senso etico, neppure una briciola minuscola di tenerezza o compassione. Solo un momento di tregua per ballare assieme, unite dal filo di un auricolare, e un ricordo che scioglie le lacrime di Anna e le fa dire che sì, ti amavo così tanto, ti ammiravo così tanto, desideravo che tu mi amassi… Ma l’altra resta in trincea perché – dice, sente lei – la sorella l’ha preparata senza saperlo a essere un muro… una roccaforte.  

Foto Luca Del Pia

Nessuno potrebbe figurarsi che il male assuma la figura di colei che è uscita dalla stessa vagina. Il male, il nemico: Siamo state ragazze, poi giovani donne, poi donne… oggi nemiche. Nemiche a tal punto che oramai la parola ‘sorella’ scortica il labbro, lo taglia, facendo emergere dalle viscere, da quel punto – si potrebbe immaginare – in cui un cordone le ha tenute legate per nove mesi alla placenta dello stesso utero, un possente rifiuto… un bisogno di rigettare.

È violenza pura il testo di Rambert, brutalità che si riversa in una scrittura fitta, ricca di digressioni del pensiero, di discorsi indiretti liberi, a tratti visionaria. Marcatamente letteraria. In questa parola che mette a dura prova il dire, le due interpreti si muovono con impressionante bravura. Ma proprio la preponderante componente letteraria sembra privare di profondità la dimensione emotiva dell’interpretazione.
Forse, a intravedersi in questo lavoro è l’effetto collaterale che spesso (non sempre) si riscontra nella coincidenza tra autore e regista: la difficoltà del secondo di prendere in qualche modo il sopravvento sul primo nel momento in cui la parola scritta deve diventare vita. Il regista Rambert non pare abbia voluto “aggiungere” nulla, limitando il disegno della messa in scena a pochi tratti che non alterano ma neppure fanno vera e umanamente pulsante la parola. Anna sempre attaccata alla sua valigia, Sara che sposta le sedie, la costante distanza tra le due: segni (forse troppo) evidenti e un po’ ingenui della regia che non arrivano a darsi come incarnazione del testo restando alla superficie dell’aspetto visivo.
Il bellissimo e atroce testo di Sorelle, che tanto dice sulla capacità che le parole hanno di ferire in punti che a volte neppure si immagina di avere, sembra allora restare piatto sulla scena, le interpreti eccelse nel dirlo ma sfocate nel viverlo, nell’essere davvero quella Anna e quella Sara che si sputano addosso l’indicibile. Nell’accendere davvero la miccia dell’odio che serpeggia tra le parole. 

 

SORELLE

testo, messinscena e spazio scenico Pascal Rambert
con Sara Bertelà e Anna Della Rosa
traduzione italiana Chiara Elefante
una produzione TPE – Teatro Piemonte Europa – FOG Triennale Milano Performing Arts
durata 90′ senza intervallo

Teatro Sannazaro, Napoli
27 febbraio 2022