ELENA SCOLARI | Generazioni. Niente accomuna velocemente dei perfetti sconosciuti più dei riferimenti generazionali, almeno in un’area geografica composta da paesi contigui, come quelli europei, in questo caso. E qual è, immediatamente, senza pensarci, l’elemento catalizzatore per chi è cresciuto negli anni ’80 del Novecento? La musica.
Da qui infatti prende avvio lo spettacolo (in inglese) 1984: back to no future del collettivo anglo-tedesco Gob Squad, apertura della Stagione teatrale 2022 di Zona K, il meritorio gruppo milanese guidato da Valentina Kastlunger e Valentina Picariello che da anni porta in Italia le più interessanti realtà straniere della scena contemporanea. Questa porzione di Stagione “diffusa” si tiene in diversi spazi, il debutto è al Teatro OutOff e la rassegna si intitola POST, intendendo con il termine “il tempo delle domande che ogni cambiamento porta con sé. POST è il dopo che stiamo vivendo e di cui ancora non sono chiari i contorni”.
Per capire il post è indispensabile ragionare sul pre, e così gli attori di Gob Squad accolgono gli spettatori che si accomodano in sala in costumi bianchi da videoclip con spalline “ottantone” e con indosso cartoni su cui sono disegnati a pennarello i contorni delle mitologiche musicassette: le Maxell 90. La commozione di chi ha passato i 40 e si avvicina ai 50 anni di età è palpabile in platea come se ci avessero regalato una scatola di salvabuchi. Lo so, è un discorso anagraficamente settario ma quei piccoli salvagente adesivi che restauravano i fogli dei raccoglitori ad anelli sono stati una merce di cui tutti i nati negli anni ’70 hanno abusato.

Su quelle musicassette che si infilavano negli walkman con annesse le prime cuffiette di spugna stava un’ora e mezza di canzoni e come ci ricordano i performer: “chi era innamorato impiegava pomeriggi per costruire la compilation giusta per fare colpo sul proprio concupito/a”, qualche brano romantico, alcuni riempipista, un paio di pezzi un po’ ricercati per non apparire troppo sentimentali e mainstream e la hit del momento.
La captatio benevolentiae dei Gob ovviamente funziona e ci prestiamo perfino a cantare Sweet dreams degli Eurythmics a due voci (la sappiamo TUTTI). Le due voci sono le due metà degli spettatori, idealmente divise da un muro, ed ecco un riferimento – momentaneo – a un fatto storico miliare: il muro di Berlino caduto nell’autunno 1989.
Nonostante questi primi elementi, lo spettacolo nel suo complesso non è un’operazione nostalgia, ne prende le mosse emotive ma poi ci troviamo in una macchina del tempo che frulla e poi catapulta i quattro attori nel loro 1984 e li sdoppia permettendogli di osservare criticamente il se stesso di allora, palesandone le illusioni velleitarie, i sogni ingenui, le paure infantili ed egoistiche, l’adolescenziale desiderio di crescere e che crescessero soprattutto le tette.

I performer sono quattro e, a turno, uno di loro è la guida degli altri tre, con la facciona gigante proiettata e pixellata su un grande schermo. Il passato comincia nelle camerette, ogni interprete descrive com’era arredata la propria e poi, seguendo le domande, passa a delineare cosa si vedeva dalla finestra, guardando fuori, verso il mondo.
I quattro si portano appresso ognuno un treppiede con telecamera e si riprendono, i loro visi compaiono su teli bianchi formato poster, ci parlano raccontando che speravano di fermare le guerre (sigh) sedendosi a cantare in cerchio (“what a foolish youth). Via via l’analisi del passato si fa più profonda e le domande cui rispondere sono Chi era il nemico, allora? Di cosa ti vergognavi? Contro cosa ti battevi? Principalmente la Tatcher. O, per la ragazza argentina, gli inglesi in generale che in quegli anni attaccarono le Isole Falkland-Malvinas per ottenerne il controllo.
Oggi suona sinistro questo ricordo bellico ma ancor più angosciosa è la memoria del ragazzo tedesco che a scuola studiava un opuscolo su come difendersi da un attacco nucleare (ri-sigh).
E fin qui tutto piuttosto bene. Irrompe però una tessera decisamente meno riuscita: lunghe scene in un contesto di realtà virtuale, con attori e i loro avatar sullo schermo, in diverse situazioni: costruitevi un rifugio in dieci minuti, la guida ordina di pensare alle provviste, all’acqua, ai vestiti, alle coperte; oppure più avanti un panorama desolato con qualche insegna di negozio in un ambiente da videogioco; oppure ancora una specie di metropolitana dove si sperimentano contatti fisici tra umani mediati dal mezzo virtuale, forse con un richiamo al futuro ignoto che sarà fatto di distanza. Questi inserti sono lunghi, appaiono più datati del vero passato e interrompono un flusso di interrogativi che non arriva, così, a scalfire una superficie sotto la quale si sarebbero potute individuare riflessioni più incisive.

1984: back to no future non pigia troppo sul pedale della nostalgia, come dicevamo, perché  pur avendo definito un sostrato musicale comune all’inizio, poi suggerisce solo sommessamente altri brani qua e là, a volte accennando poche note (mi è sembrato di riconoscere anche Tarzan boy di Baltimora ma non ci giurerei), a volte inserendo frasi nel parlato come l’affermazione “Girls just want to have fun” (Cindy Lauper) o l’accenno al Selfcontrol (Raf, terzo sigh).
Qualche spunto lo offre anche l’idea del gioco dei se: cosa sarebbe stato se avessi cercato di conoscere mio fratello invece di odiarlo, cosa sarebbe successo se avessi studiato un’altra lingua per parlarla fluentemente, eccetera. Rimane però un gioco.
Ai Gob Squad non manca l’ironia ma tecnicamente il lavoro risulta alla fine più carico di dispositivi che di pensiero. Interessante il tentativo di costruire una dimensione dove passato, presente e futuro si mescolano, tornare indietro a quando zoom era solo una funzione della macchina fotografica significa non sapere cosa sarà (anche se Al Bano e Romina nel 1984 vincono Sanremo con Ci sarà) ma riscrivere la storia non si può, nemmeno la propria.
Questo 1984 è simbolico ma non è quello di Orwell, ben più inquietante. I Gob Squad sottolineano però, ancora una volta, come non si debba mai smettere di farsi domande.
Del resto Everybody is looking for something.

 

1984: BACK TO NO FUTURE

ideazione e regia Gob Squad
performance Johanna Freiburg, Sean Patten, Sharon Smith, Berit Stumpf, Sarah Thom, Bastian Trost, Simon Will, Damian Rebgetz e Tatiana Saphir
sound design Sebastian Bark, Catalina Fernandez
sound mix Isabel Gonzalez Toro
video design Miles Chalcraft, Noam Gorbat
costumi Ingken Benesch
scene Amina Nouns 
lighting design e direzione tecnica Chris Umney, Max Wegner
drammaturgia e produzione esecutiva Christina Runge
VR consultancy, development and design Joris Weijdom
collaborazione artistica Mat Hand
Assistente alla regia Valeria Germain
assistente costumi Simon Kernen
assistente alle scene Stella Nikisch
assistente VR Diede Tap
directing intern Rodrigo Zorzanelli Cavalcanti
Gob Squad management Eva Hartmann
PR/Communications Alexandra Lauck
UK producer Ayla Suveren
Produzione Gob Squad in co-produzione con HAU Hebbel am Ufer Berlin, The Public Theater NY (USA), Schauspiel Leipzig, Anuja Ghosalkar / Drama Queen & Goethe-Institut/Max Mueller Bhavan Mumbai (India), HELLERAU – European Center for the Arts Dresden, Sort / Hvid Copenhagen and Teater Momentum Odense (Denmark)

Teatro OutOff, rassegna POST organizzata da Zona K, Milano | 16 marzo 2022