SUSANNA PIETROSANTI | Esistono “onde mnemiche”. Warburg lo sapeva, aveva coniato lui questo modo di chiamare quegli urti della memoria che colpiscono una civiltà in rapporto al suo passato, quelle invasioni sussultorie tramite le quali linee sommerse dei nostri ieri riprendono possesso dell’arte e della vita.
Talvolta le cavalcano gli dèi, come nel caso del formidabile e misterioso ritrovamento, negli anni ’70, a Lipari, di una raccolta di maschere e statuette a soggetto teatrale tutte inserite in corredi tombali del IV e III secolo a. C., incredibilmente belle e misteriosamente espressive. Circa mille pezzi, raffiguranti i personaggi delle tragedie di Sofocle ed Euripide o i personaggi delle commedie di Menandro. Mai da sole nelle varie sepolture, ma sempre in piccoli gruppi, nella loro espressività magnifica sono un artificio che immediatamente dichiara: teatro. Su 44 pezzi, 36 modellini con i colori ottimamente conservati erano relativi alla Samia di Menandro.
Sempre in piena “onda mnemica”, nel corso degli anni ’50 un editore svizzero di nome Bodmer acquista da ignoti scavatori egiziani un certo numero di papiri tra i quali un ‘liber’ che contiene tre commedie pressoché complete di Menandro: il Dyskolos, la Samia e gli Epitrepontes. Mario Prosperi, studioso e regista di teatro, le traduce integrandone le lacune, e due presidenti dell’Istituto Nazionale del Dramma Antico gli affidano la regia delle commedie: nel 1978 Giusto Monaco gli commissiona la traduzione della Samia e Turi Vasile nel 2004 quella degli Epitrepontes  (L’arbitrato). Lo stesso Mario Prosperi cura anche le regie, che per la prima volta sperimentarono le maschere fatte riprodurre dai modelli antichi.
Fra gli attori, Roberto Zorzut diventa adesso regista (e ancora attore) di una nuova edizione de La donna di Samo, in scena in questi giorni, con assoluta suggestione e coinvolgimento del pubblico, nell’ex manicomio di San Salvi, a Firenze, in occasione dell’Estate a San Salvi dei Chille de La Balanza.

Da cosa nasce, in questi anni, l’esigenza di rimettere in scena un classico, una commedia di Menandro, autore non facilissimo da condividere e da amare?

L’idea di riportare in scena la Donna di Samo nasce dall’esigenza di coniugare divertimento e cultura in un momento così difficile per il teatro e di andare in un modo diretto verso un pubblico sempre più disaffezionato allo spettacolo dal vivo. Obiettivo che, visti i commenti a fine spettacolo, sento in gran parte raggiunto.

Quali sono state le direttrici della messa in scena? A quali elementi sente di dovere ispirazione?

La mia messa in scena fa tesoro dell’esperienza anche del teatro orientale che ho avuto modo di praticare anni addietro: l’uso delle maschere, il modo di muoversi dei personaggi. Una modalità di teatro “fusion” in cui si riscontrano le stesse suggestioni tra forme apparentemente così distanti. C’è una parentela stretta, ad esempio, con il bunraku, forma di teatro in cui burattini enormi vanno in scena gestiti da tre burattinai, il master e due aiutanti, che sono a vista, a volto scoperto. Talvolta ci sono 18 burattinai contemporaneamente in scena, eppure il pubblico accentra la sua attenzione sui burattini, la magia funziona.

Recitare Menandro, celebre per i suoi testi quotidiani, incentrati su dinamiche eterne e basse, utilizzando le maschere, deve essere una sfida complessa…

Lo è.  Le nostre maschere sono grandi una volta e mezza la faccia, non permettono di vedere in avanti, possiamo muoverci solo in modo calibratissimo, un teatro formale, stilizzato. Ci muoviamo in modo bidimensionale. Utilizziamo la luce per creare ombra sulla maschera e dare espressività in più. Tutto, poi, dipende dal corpo, naturalmente. Il pubblico all’inizio si sorprende di un apparato teatrale così insolito, poi se ne dimentica e si abbandona alla storia.

Quali espedienti drammaturgici di Menandro sono funzionali ancora adesso? A quali il pubblico reagisce entusiasticamente?

La fiction. La pura fiction; la commedia degli equivoci che coinvolge ora come allora e come sempre. C’è da considerare la modernità della drammaturgia menandrea, la profondità psicologica dei caratteri, la poetica che ne hanno fatto un modello, popolarissimo alla sua epoca in tutto il mondo ellenistico, ma anche punto di riferimento per gli autori successivi (Plauto, Terenzio) che hanno letteralmente copiato parti dei suoi spettacoli, nonostante gran parte si sia perduta nel corso dei secoli. Se poi consideriamo che nelle sue linee sostanziali le opere di Menandro, quelle che conosciamo, neanche un decimo della sua vasta produzione, trattano storie di famiglie, di equivoci e fraintendimenti, risulta evidente come in fondo sia una sorta di archetipo della commedia contemporanea, della fiction. E quindi come la risposta del pubblico, superate le diffidenze di uno spettacolo in cui si usano maschere (oggetto che viene reputato per teatro destinato ai bambini), sia alla fine sostanzialmente positiva e divertita, vista la comprensibilità degli argomenti e la fruibilità della trama.

Le vostre maschere dipendono dai modellini di Lipari?

Le nostre maschere sono le repliche dei modellini delle maschere ritrovate a Lipari, avendo voluto mantenere completamente  il carattere filologico dell’operazione.

Qualcuno ha scritto che la maschera è uno strumento che dichiara immediatamente: teatro. Lei è d’accordo?

Non del tutto. La maschera ha invaso spazi non propriamente teatrali, i comics, ad esempio, i supereroi che la indossano, magari parziali, ma inconfondibili. Per Menandro erano tipologie umane riconoscibilissime, gli schiavi coi capelli rossi, le donne della famiglia con la pelle candida, perché non uscivano mai, le altre, e gli uomini, con incarnati più vivaci. Un modo rapido di definire un carattere, una chiave di lettura inconfondibile.

Il vostro esperimento rende viva una tipologia di teatro che spesso rimane confinata nelle pagine dell’archeologia, contraddicendo anche ciò che viene tramandato in modo solo teorico, ad esempio che le maschere servono per amplificare la voce, che strutturano un teatro fermo, ieratico…

Le maschere non amplificano nulla, noi usiamo i panoramici e dobbiamo tenere pulita la voce o impastiamo tutto. Ci muoviamo in modo formale ma vivace. Le cose vanno sperimentate, non pensate in teoria. «A che pensa quando fa una performance?» chiese uno studioso anglosassone al mio maestro in Oriente. Lui rispose: «A quello che devo fare». Ecco, tutto qui…

LA DONNA DI SAMO – SEVEN CULTS ROMA

ispirato al lavoro di Mario Prosperi sul testo della Samia di Menandro
con Bruno Governale, Alessandra Cavallari, Ana Kush, Roberto Zorzut
regia Roberto Zorzut
musiche Marco Abbondanzieri
scene Renato Mambor, Roberta Gentili
maschere Emanuele d’Andrea, Roberta Gentili, Roberto Zorzut

Estate a San Salvi
ex manicomio di San Salvi, Firenze
7-9 luglio