MATTEO BRIGHENTI e ELENA SCOLARI | L’ultima produzione del regista svizzero Milo Rau, direttore del teatro NTGent in Belgio, è da poco andata in scena in tre importanti teatri italiani (stavolta non è stata Milano ad aggiudicarsela): il Teatro Argentina di Roma nell’ambito del Romaeuropa Festival, il Teatro Metastasio di Prato e il Teatro Gustavo Modena di Genova. PAC ha visto Grief & Beauty a Prato e a Genova e ve lo restituiamo con questo dialogo, un confronto aperto, diretto, e anche intimo, su cosa abbiamo visto e sentito e, soprattutto, su come lo abbiamo visto e sentito.
MB: Grief and beauty è la seconda parte della Trilogy of Private Life. Nella prima parte, Family, il regista aveva usato il suicidio collettivo di una famiglia per mostrare la società occidentale sull’orlo del baratro.
Qui l’addio, il lutto, costituiscono i momenti di un’orazione funebre che ha per orizzonte, se possibile, la celebrazione più alta della solidarietà e dell’amore. Ecco, dico subito che per me lo spettacolo è un rito di passaggio nella morte restando vivi.
ES: Sì, prima di entrare nelle sensazioni che questo lavoro complesso ci ha lasciato, provo a descrivere l’inizio del rito e ciò che si vede in scena, aperta fin dall’entrata del pubblico in sala, con gli attori e la violoncellista già presenti. Chi non è distratto può anche vedere l’attore più anziano che si cambia un catetere a vista, togliendosi il pigiama, mentre le persone si siedono in platea. Capiamo già che la malattia è materia scenica di cui si tratterà. Come in un modellino in scala 1:1, sono ricostruite, in linea, tre stanze di una casa: il bagno, una camera da letto e la cucina, doviziosamente arredate.
Un grande schermo campeggia sopra alla scena (esattamente come in Everywoman, per molti versi prodromo preparatorio di questo spettacolo), il viso gigante di una donna anziana ci guarda di lassù. Tra poco sapremo che si chiamava Johanna.
MB: Se non alla fine, la voce di Johanna non si sente mai. La ascoltiamo attraverso i racconti delle attrici e degli attori in scena. Princess Isatu Hassan Bangura è una sorta di narratrice, mentre Arne De Tremerie, Anne Deylgat, Gustaaf Smans, riproducono un nucleo familiare di padre, madre, figlio, colpito dalla malattia del primo. Non c’è discontinuità nel passaggio tra interprete e personaggio, l’uno continua naturalmente nell’altro, come non ci sono porte tra i tre ambienti in scena, perché, in effetti, sono lo stesso ambiente, ovvero sono lo stesso teatro del dolore e della sopravvivenza dei vivi.
È un appartamento normale, non reale, ma realistico, quindi riconoscibile a tutti; planimetria scoperta, rivelata, di biografie fatte di amare cadute e di rinascite luminose.
ES: La famiglia che hai descritto assiste l’uomo in prossimità di scegliere l’eutanasia per porre fine alla propria esistenza; al nucleo si aggiunge l’infermiera (anch’essa interpretata da Princess Bangura) che inietterà l’ultimo sedativo, quello da cui non ci si risveglia. Tutti e quattro raccontano alla platea, uno per volta, storie personali legate alle proprie esperienze con affetti mancati, in varie circostanze. A mio avviso sono anche troppe le storie che ascoltiamo, un surplus di sofferenza un po’ oltre il limite. Non è la quantità di incontri con la fine che fa l’importanza delle testimonianze.
Inoltre, Princess Bangura, che tu giustamente definisci narratrice perché è lei a presentarci Johanna e la sua scelta, porge parte della sua biografia introducendo temi e situazioni che esulano dal punto centrale: ci parla di un paese in guerra civile dal quale sua madre è scappata portando la sorella, ma lasciando lei e il padre, ci parla di emigrazione e di un conflitto tutto familiare, di sfiducia e sospetti tra consanguinei, problemi anche sociali che poco hanno a che fare con l’atteggiamento verso la morte.
MB: Capisco quello che dici. Vero è, però, che anche le nostre storie personali, le nostre biografie, cominciano quando lasciamo le nostre terre di origine e andiamo in cerca del nostro destino. Questo ci dice la figura e l’esempio di Princess Bangura: la nostra individuazione è il risultato e di ciò che abbiamo fatto e di ciò che abbiamo subito.
ES: Sì, ma la sua rimane una biografia eterogenea rispetto al fulcro di contenuti che avvicina tutti gli altri a un rapporto con la fine. A mio a parere è come se il testo deviasse aprendo una via secondaria accidentata e che allontana lo spettatore dalla meta, affaticandolo.
MB: In generale, il sovraccarico emozionale è indubbio, ma ritengo sia funzionale a creare un senso di vertigine che ci mette di fronte a una scelta netta: andare oltre le nostre resistenze e accettare di affidarci completamente a Grief & Beauty, al viaggio dentro di noi che Milo Rau ci apre davanti agli occhi, oppure restare semplici spettatori sulle nostre comode poltrone, distanti, e quindi al sicuro, protetti dalle nostre incrollabili convinzioni su ciò che è opportuno e ciò che non lo è, su ciò che è giusto, legittimo, e su ciò che non lo è.
Il lavoro di Rau è uno zoom puntato sulla nostra interiorità, di più: sulla nostra umanità. Non a caso, quando le confessioni sul palco si fanno intime, una telecamera stringe sui volti di attrici e attori, mentre tutto il resto scompare dall’inquadratura, perché i vissuti, i nodi emotivi, sono tempo che va indietro, o meglio, che va dentro, e non bada a quello che succede intorno, a ciò che c’è adesso.
Sta a noi scegliere se farci guardare, e dunque se Grief & Beauty ci ri-guarda oppure no.
ES: Ecco, a proposito dell’uso della telecamera: Milo Rau ha inventato un modo particolare di utilizzarla in scena, che ha creato decine di epigoni, alcuni hanno trovato una via originale di sfruttare lo strumento, altri hanno perlopiù copiato lo stilema con meno intelligenza. In realtà forse prima di lui l’ha usata con questa finalità cine-teatrale Katie Mitchell, come racconterà a breve Renzo Francabandera su queste pagine, in un commento storicizzato sulla rappresentazione della morte a teatro, sempre partendo da questo spettacolo.
Ora, però, Rau potrebbe abbandonare questo mezzo, perché non ne ha più bisogno. In questo lavoro, infatti, la forza dell’immagine in differita è quella di Johanna, la vera protagonista, il resto è ormai un orpello che appare appannato.
Un’altra osservazione sulla regia: la violoncellista Clémence Clarysse è un contorno ancillare, chiamata dagli stessi attori ad accentare con musiche di servizio, rimane un elemento non integrato. In una concezione di abbattimento dei confini tra attore e personaggio, stona che a lei non venga passato il calice per il brindisi di saluto a Johanna.
Ma veniamo al cuore dello spettacolo, che batte – fino alla linea piatta – intorno alla scelta di una donna 85enne, lucida e ancora vitale, che dichiara in prima persona: «Sembra che io non soffra, ma invece è così, e scelgo di finire i miei giorni con il sorriso», a modo suo. La sua canzone preferita era My way. Quale sensazione hai avuto di fronte a un gesto così coraggioso e sicuro?
MB: Grief & Beauty ci chiede di esporci. L’ho sentito distintamente dentro di me e voglio riportarlo qui, grazie al dialogo con te, cercando di essere il più possibile fedele a come l’ho sentito. Fedele e dunque autentico.
Io non ho visto mio padre morire in ospedale. Ho visto Johanna morire in video, a teatro. Johanna è una completa estranea per me. Ha scelto e ottenuto di poter morire una volta sola e non ogni giorno che le restava da vivere. E ha scelto e ottenuto di farsi riprendere per sostenere davanti a tutti il suo sorriso. Letteralmente fino al suo ultimo respiro.
In quei tutti ci sono anche gli estranei come me. Anzi, forse, ci sono soprattutto loro, ci siamo soprattutto noi, chi l’ha vista e chi la vedrà, su quello schermo, sempre scegliere la morte per riaffermare la vita; i suoi cari, la famiglia, gli amici più stretti, erano invece lì, proprio accanto a lei, a stringerle le mani sul letto.
Per questo, ho tenuto gli occhi aperti fino in fondo, e ho guardato dentro l’indicibile e umanissima violenza di una vita che muore: lei voleva questo. Voleva che riconoscessimo il suo gesto come nostro, che lo facessimo nostro, trovando in noi la forza e perfino la leggerezza di non avere paura della morte, nemmeno ora che l’abbiamo davanti, o un domani che l’avremo addosso. Perché è uno scivolare semplicemente via da tutto.
Quando l’arte si fa specchio della vita, o meglio è vita essa stessa, ci permette di vedere ciò che non abbiamo visto prima, ci permette di stare accanto a chi abbiamo amato e adesso non è più con noi. Accompagnando Johanna a morire, per i brevi e interminabili minuti del suo video è come se avessi accompagnato anche mio padre, che invece era solo quando è morto. La bellezza che Rau richiama nel titolo, a mio avviso, è questa: il dono di una seconda opportunità. Una seconda vita che nasce dalla condivisione del dolore.
ES: Anche io trovo che, nonostante la fatica e la durezza di vedere quell’attimo, di sentire quel respiro amplificato fino all’ultimo soffio leggero, il senso finale sia di conforto. Perché Johanna ha voluto che potessimo vedere che quel momento si può sopportare. Assistere non cancella il dolore, ma lo rende arginabile per non esserne sovrastati.
MB: Nel tempo del palcoscenico si compie quello di Johanna. Si compie e si ripete, visto che siamo a teatro, rinnovando il suo coraggio e la sua determinazione, la sua radicalità e la sua tenerezza. Grief & Beauty, secondo me, non è solo uno spettacolo importante per i temi che affronta, con un cast in costante ascolto della propria e altrui sensibilità come raramente si vede, e con un uso prezioso, sapiente e compassionevole della macchina scenica: è vita ed è vera.
Per questo, Milo Rau non può, né tantomeno vuole lasciare indifferenti. Forse, lo scandaloso non è lui, siamo noi che non siamo più disposti a farci ri-guardare in faccia dalla realtà. Vogliamo solo scappare da noi stessi il più lontano possibile.
ES: Sicuramente, oltre al fatto che in Belgio l’eutanasia sia legale, Rau è un regista più libero di quanto molti suoi colleghi italiani non possano nemmeno sognarsi di essere. E la critica italiana lo ammira anche per questo. Sono certa che se un italiano si permettesse di toccare argomenti così delicati, con la stessa lucida sfrontatezza, sarebbe oggetto di critiche feroci e moraleggianti.
Teatralmente il momento più bello, per me, è una scena in cui la natura umana (e la sua finitezza) si unisce alla natura animale. Anne Deylgat (veterinaria prima di essere attrice) racconta i suoni che sente provenire dal bosco dietro la sua casa in Italia, numerosi diversi cinguettii, ma soprattutto l’ululare dei lupi: a noi sembra che ognuno emani il suo verso in solitudine, ma in realtà stanno comunicando tra loro. E così i quattro interpreti intonano insieme un ululato delicato, poetico, corale, che avvicina il mistero inconoscibile a un’armonia universale.
Come c’è armonia e tensione alla gioia nel cha cha cha collettivo di chiusura, il ricordo presente del ballo che ha fatto conoscere Arne De Tremerie e sua moglie. La musica della vita suona anche per chi la lascia.
GRIEF & BEAUTY
regia Milo Rau
testo Milo Rau & Ensemble
con Arne De Tremerie, Anne Deylgat, Princess Isatu Hassan Bangura, Gustaaf Smans, Johanna B. (in video)
drammaturgia Carmen Hornbostel
coach e collaboratore alla drammaturgia Peter Seynaeve
scene e costumi Barbara Vandendriessche
composizione Elia Rediger
musica dal vivo Clémence Clarysse
camera & video design Moritz Von Dungern
luci Dennis Diels
produzione NTGent in coproduzione con Tandem Scène Nationale Arras – Douai, Künstlerhaus Mousonturm Frankfurt, Romaeuropa Festival, Teatro Nazionale di Genova
Teatro Metastasio, Prato – 9 ottobre 2022 | Teatro Gustavo Modena, Genova – 12 ottobre 2022