ENRICO PASTORE | Il 21 giugno 1919 Anatolij Lunačarskij introduce il circo nei programmi del Narkompros, Commissariato del Popolo per l’istruzione. La sua è un’intelligente presa d’atto di una “epidemia” in corso da molto tempo e che dilaga per tutta l’Europa teatrale.
Se vogliamo cercare un “paziente zero” potremmo fare il nome di Marinetti con cauta sicurezza, anche se il mondo circense affascinava da tempo. Pensiamo a I pagliacci di Leoncavallo, al Pierrot Lunaire di Schönberg, ai simbolisti (Blok su tutti), Chagall e Picasso. I cubofuturisti russi si appellavano, però, all’autorità di “nonnino Marinetti” citando i suoi manifesti: il primo del 1909, e poi il Teatro di Varietà del 1913 e il Teatro Futurista sintetico del 1915.
Quello che affascinava nel credo marinettiano era l’appello alla fisicofollia, alle sorprese del Teatro di varietà, gli acrobatismi, l’abolizione della distanza tra palco e platea e, soprattutto, nessuna analisi psicologica del personaggio e del testo.
I cubofuturisti russi si presentavano già alla vista come una sorta di circo clownesco: Majakovskij vestito di giallo e rosso, Chlebnikov lacero e sbrindellato con una federa piena di manoscritti da portarsi appresso, la Larionova e David Burliuk si dipingevano la faccia di astratti geroglifici. Non mancavano le strane bombette, gli sgargianti panciotti, le gorgiere secentesche. Il mondo artistico che stava nascendo lo faceva in maschera e in allegria, colpendo i preconcetti e le sicurezze dei benpensanti. Punin senza mezzi termini dichiara: «Non c’è stato ancora un movimento letterario così virtualmente ricco di clownismo, come quello futurista»
Tra Majakovskij e il circo fu amore a prima vista. Arrivò persino a recitare i suoi versi in groppa a un elefante. Amò non solo quello classico con i pagliacci, i forzuti, gli acrobati e i freak, ma quello popolare russo, gli spettacoli da fiera popolare, i cantastorie, la maschera manesca e truffaldina di Petruška (per inciso il balletto di Stravinskij danzato da Nijinskij su coreografia di Fokine è del 1910). Troviamo riferimenti a quel mondo dei tendoni e di fiere nei versi, negli scritti, nelle conferenze e soprattutto negli spettacoli di cui scrisse i testi, ma anche di quelli di cui si interessò di regia e messinscena. Il poeta Igor Il’inskij scrisse: «Le “feeries” del baraccone di Lentovskij, al quale deve molto anche la tecnica scenica del Teatro d’Arte, gli spettacoli delle fiere russe coi “petruški”, i pagliacci, i diavoli che sprofondano sotto terra: tutte queste forme teatrali autenticamente popolari entrarono in modo organico nella concezione drammatica di Majakovskij».
Di certo Mistero buffo fu quello che più di ogni altro era intriso di tutti questi elementi, esaltati poi dalla regia biomeccanica di Mejerchol’d il quale, oltre a designare l’attore come “clown analitico”, aveva sostituito Blok con Majakovskij come spirito guida dopo aver lanciato il suo Ottobre Teatrale. Con Mejerchol’d si passa dal circo al baraccone, ossia un misto tra esperimenti moderni e tradizione popolare. L’idea politica non era semplificare o abbassare il livello culturale, come si direbbe oggi, ma quello di fornire delle basi popolari ai nuovi linguaggi avanguardisti per l’incontro con il nuovo pubblico operaio della nascente Unione Sovietica.
Lo stesso intento politico animava anche Brecht quando desumeva le sue modalità sceniche dall’operetta, dal cabaret o dal music-hall: usare il pop o, meglio, intriderlo di sperimentalismo per incontrare lo spettatore come a un incontro di pugilato attraverso trovate, meraviglie, gioiose arlecchinate e pasquinate. È nota la collaborazione di Majakovskij con il famoso clown Lazarenko, i cui sketch erano un misto di clownerie e bollente satira politica.
Il circo si inserì in quasi ogni ricerca artistica del primo periodo sovietico, non vi era artista che non provò a confrontarsi con il genere, usandolo e inserendolo nelle proprie trovate registiche o addirittura per promuovere nuove teorie. Pensiamo al saggio sul Montaggio delle attrazioni di Ejzenštejn (che non dimentichiamo era allievo di Mejerchol’d): «Fare un buono spettacolo (dal punto di vista formale) significa costruire un buon programma di music-hall e di circo, muovendo dalle situazioni della commedia su cui ci si fonda».
I clown li troviamo anche al Mastfor nato nel 1920 per opera di Foregger e Mass (dove collaborò assiduamente Ejzenštejn), al Teatro di Commedia Popolare di Radlov, sempre venuto alla luce nel 1920, dove collaborarono due importati artisti circensi come l’augusto Georges Dal’vari e l’acrobata e fantasista Aleksandrov, e infine il FEKS di Kozinkov e Trauberg. Lo scopo di tutti costoro era come diceva Arenenko sminuzzare il teatro in frantumi.
Quale tipo di clown avevano in mente a quell’epoca? Il primo passo era infatti costruire un nuovo tipo di maschera che rappresentasse l’epoca nascente, l’industria, la velocità, l’afferemarsi del potere delle masse. Il riferimento fu subito al cinema, a Charlie Chaplin in primissima battuta (The circus del 1928 fu per altro uno dei suoi film più apprezzati), ma anche Buster Keaton per la sua impassibile e granitica capacità di affrontare qualsiasi periglio.
Altro influsso importante venne decisamente dalla pittura, dal suprematismo soprattutto. Figure geometriche, cubi e coni, divennero costumi, così come giocosi arabeschi divennero trucchi sul viso. E da ultimo, come detto, il mondo della rivista, del music-hall e del cabaret. A Mosca e San Pietroburgo a quell’epoca, e soprattutto, immediatamente prima lo scoppio della rivoluzione, imperversavano le pazzie notturne e i matrimoni artistici impossibili e impensabili. A Mosca a dar vita a Il pipistrello, animato dai più accesi sostenitori del naturalismo, gli attori del Teatro d’Arte. Partecipava di buon grado persino Stanislavskij, il quale aveva sempre avuto una passione smodata per le mascherate e gli scherzi. A San Pietroburgo, invece, troviamo La casa degli Intermezzi, tana del mondo della Mejercholdia, e Il cane Randagio, dove si riunivano i poeti, da Majakovskij ad Achmatova, da Mandel’stàm a Marina Cvetava.
È superfluo ricordare come nei cabaret da Parigi a Zurigo, da Roma a San Pietroburgo, sia nata molta della grande arte dell’inizio del Novecento: da Dada a Petrolini, dal Futurismo al grande teatro di Bertold Brecht. Oggi forse si è un poco supponenti rispetto ai generi minori, ai luoghi di rappresentazione popolari, magari equivoci. Eppure si deve ricordare che al centro non nasce nulla, è al confine che accadono le cose.
Il nostro presente richiama spesso l’ibridazione tra le arti, persino nei bandi e leggi di finanziamento, eppure il melting pot, benché non manchi, è decisamente sterile, manierista e manca di quella gioia di sperimentazione di quell’epoca lontana. Il circo contemporaneo, almeno in Italia, si limita per la gran parte a costruire drammaturgie per accostamento di numeri di abilità tenuti insieme da una labile storia. Per trovare esperimenti interessanti volti a innovare il linguaggio, anche attraverso un orizzonte politico, bisogna varcare le Alpi e dirigersi in Francia, in Inghilterra, in Belgio.
Ancora una volta bisogna rimarcare una mancanza di organicità nella ricerca e l’uso di parole come multidisciplinarietà come vuoti mantra, senza una visione che spinga l’operare verso direzioni inusuali, impreviste, impensate.
Raccogliamo, invece, l’invito di quel ricco e fervido passato dove le arti tutte convergevano in ricerche comuni. Quali feconde possibilità potrebbero nascere dallo scambio e connubio di tecniche circensi, teatrali e coreutiche. Si parla tanto di sharing training, ma questo avviene solo all’interno di un’arte, la danza. Si potrebbe allargare il progetto, aprirlo e favorire dialoghi tra arti diverse.
Quali e quanti benefici, a sua volta, per l’arte circense se drammaturghi, registi e coreografi mettessero a disposizione le proprie tecniche e idee al servizio di un’arte tanto antica e colma di tradizione?
Per mettere in opera una ricerca davvero fruttuosa occorre innanzitutto che Ministero e Siae, alla faccia dell’invito alla multidisciplinarietà, permettano seriamente l’incrocio e l’ibridazione, invece di congelare gli ambiti e le domande ai singoli generi separati. In seconda battuta serve il tempo, materiale primario, i luoghi di sperimentazioni da frequentarsi assiduamente e non per brevi e sporadiche residenze, e soprattutto di idee e pensieri subordinati al tempo da dedicare allo studio e all’affinamento di tecniche inusitate.
Il passato, in questo, è una grande miniera. Un luogo dove attingere modalità, utopie, pratiche, stilemi, non per copiare, ma per derivare e spillare linfa vitale per nutrire il presente e costruire un futuro. Occorre conoscere per innovare, usare un sapere non scolastico, ma eretico, dissacrante, audace. È necessario scovare le possibilità offerte dalle nuove culture popolari, senza schizzinoseria o alterigia, e solo così sarà possibile ricostruire un nuovo rapporto con il pubblico e una diversa funzione in un mondo crepuscolare e in una società in perenne cambiamento. Soprattutto, bisogna ritrovare la gioia nonostante le difficoltà, la contentezza e la festosità dissacranti nei riguardi di riti stantii e polverosi.