RENZO FRANCABANDERA | Dieci anni fa o poco più, commentando un Médée Matériau memorabile, quello per la regia di Anatoli Vassiliev, ospitato a Fabbrica Europa a Firenze e ad Avignone nel 2002, Franco Cordelli faceva due semplici ma illuminanti riflessioni sulla scrittura del tedesco Heiner Müller: “A leggerlo non sembra affatto uno dei maggiori drammaturghi del nostro tempo. Non si capisce; è ellittico come nessun altro mai è stato; si compiace del proprio spasmodicamente contrarre i testi altrui. (…)Müller riscrive in poesia contemporanea ciò che fu scritto in poesia o in prosa secoli e secoli fa. Soprattutto, si farebbe prima a dire che questi suoi irritanti testi, alla prova della scena, risultano tra i più drammatici e sconvolgenti degli ultimi decenni”. Cordelli testimoniava anche di come Vassiliev avesse confessato di essersi irritato a leggere Müller per le «costruzioni ermetiche tedesche» e per gli «sproloqui post-filosofici».
La nuova regia di Carmelo Rifici debutta nel teatro che lo coproduce insieme a Proxima Res, ovvero Spazio Tertulliano di Milano. Scindere la riflessione di Rifici sul testo dal luogo materiale e immateriale in cui il Mariangela Granelli dà corpo alle sue tre Medee è pressoché impossibile. Determinanti nell’impianto narrativo dello spettacolo risultano le scene e i costumi di Margherita Baldoni, e l’intersezione con i video di Lisa Cerri e il complesso disegno luci di Matteo Crespi, pur in uno spazio assai ridotto. Un’ampia piscina di diversi metri quadri occupa il centro della scena. Sul lato sinistro una parete diagonale di plastica semitrasparente taglia il rettangolo del palcoscenico, creando uno spazio anteriore più ampio di quello posteriore.
Lo spettacolo si apre con “Riva abbandonata” in cui una donna esteuropea si ritrova, derelitta e spaesata, in un occidente che non le offre cittadinanza. Qui dovrebbe scorrere il tema della protagonista che rigetta il suo vissuto per sfidare il destino. La sua scelta d’amore non la nobiliterà, anzi la porterà alla tossicodipendenza e alla prostituzione. Le sue parole sono frammenti, taglienti scansioni verbali, che incidono come lame il corpo nudo dell’attrice, segnandola a fuoco. La sfida di questo primo testo è renderlo in una qualche forma comprensibile. Rifici sceglie di affidarne la lettura al corpo e a una scansione verbale quasi da contro-canto, con le cadenze e gli accenti sincopati. L’impresa finisce per risultare troppo alta, lo spettatore resta spaesato, forse più del personaggio protagonista i cui contorni caratteriali si arrivano a leggere con difficoltà oltre quanto è di più immediata leggibilità.
Il passaggio al secondo frammento, “Materiale per Medea”, porta la donna straniera, obbligata a vivere da reietta, ad inserirsi in un paesaggio multimediale, dove alla sua presenza fisica concreta si contrappone, sullo sfondo, un paesaggio anomalo: una sala teatrale che la ascolta silenzioso, in attesa di un finale di cui però non aspetta il risvolto drammatico e inatteso.
“Paesaggio con Argonauti” è l’atto della trilogia in cui il personaggio appare, nella parola proferita e nel corpo offerto al pubblico, più chiaro e leggibile nel farsi pentagramma della sinfonia tragica con cui Müller disintegra la figura di Medea nell’ambiente in cui aveva scelto di vivere, in quella terra, in quell’humus di sentimenti che le si rivolta contro, per marchiarla, macchiarla, in modo indelebile.
Riesce la regia a legare i tre frammenti in modo inscindibile, in quell’operazione che Müller aveva inteso favorire con l’unione di tre brevi testi? Non fino in fondo, perché il paradosso che vediamo è che il cemento unificante di questo spettacolo, più che il lavoro sul personaggio, è la scena, il locus, la grande piscina attorno e dentro la quale le tre vicende prendono anima.
La storia dei tre caratteri, a differenza del corpo d’attore, resta al bordo di questo elemento, ci gira attorno, ci entra dentro, ma non fonde in maniera liquida i tre episodi, li lascia scissi, affidando allo spettatore un compito non semplice di composizione che in maggior misura sarebbe stato compito della regia. L’interprete cresce con i tre personaggi, appare un po’ più a disagio nella tossicità del primo, e più a proprio agio nella fragile negazione di sé dell’ultima. Ma la scelta registica di mantenere l’indole frammentata non aiuta certamente l’attrice a creare una possibile Medea, nella pluralità psicologica che Müller legge del carattere della donna.
Se uno spettacolo fosse uno spazio metrico e le ragioni, le idee del regista su un testo fossero una successione di punti, in matematica varrebbe una regola, ovvero quella dell’unicità del limite verso cui questi punti convergono. In buona sostanza, l’argomentazione di uno spettacolo dovrebbe indirizzarsi verso un asintoto logico che ad un certo punto non può essere modificato senza che questo nuoccia all’impianto generale, alla tenuta stessa dell’universo di pensieri che in quel microcosmo trova le sue regole. Nello spettacolo di Rifici questa direzione profonda e univoca forse c’è, ma non arriva ad emergere, e così la parola di Müller assume il suo connotato più crudele e autodistruttivo, sovrastando tutto, e diventando quasi incomprensibile, pur in modo assordante, e la sensazione è che più che a una trilogia si assista a tre segmenti incomunicabili, cui manca un unico piano euclideo su cui poggiare, se non appunto quello scenico, tolto il quale se ne rivelerebbe forse l’intima fragilità, con riferimento alla lettura profonda del e sul testo.
Di seguito un video promo dello spettacolo
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