ANDREA CIOMMIENTO | Luna Park è la testimonianza solitaria di un Don Chisciotte disperso e circondato da architetture senza umanità simbolo della desolazione della provincia italiana. Il monologo delle Vie del Fool, ospite a Collinarea Festival 2014, racconta le geometrie di palazzine e tangenziali dimesse che racchiudono l’esistenza di un uomo in scena in compagnia della luce elettrica, unica presenza “umana” tra strade vuote e notti senza sonno. Sarà il sogno a farlo da padrone, il sogno nella ricerca di Dio o degli Alieni, il sogno che alimenta gli ultimi brandelli di immaginazione come ripetizione alterata dei suoi vissuti, a volte troppo carichi di aspettiva, a volte incisivi e capaci di portarci nel suo mondo immaginato.
Il vostro spettacolo è l’ultimo capitolo di una trilogia che cerca risposte a domande universali. In Luna Park ascoltiamo dall’inizio alla fine la domanda: “Dio dove sei?”
Luna Park è l’ultimo capitolo della trilogia dove si va a stringere sulle domande fondamentali. Non potevamo non prendere anche la religione. Spesso le risposte che ci vengono fornite lasciano un vuoto più che colmarlo. Volevamo lavorare sui non luoghi, sul tema del vuoto e su un paesaggio che fosse desolato. Abbiamo pensato alla desolazione di una tangenziale di notte dove non passano più le macchine, nel nostro caso è la tangenziale est di Roma. Siamo partiti da quel silenzio.
Come lo collegate agli altri due lavori?
Siamo partiti da un lavoro che ha sollevato una riflessione su tutto il pensiero esistenzialista comprendendo le Operette morali di Leopardi e il Mondo invisibile di Ionesco, e piano piano abbiamo cercato un nostro modo per rispondere alle nostre domande più urgenti: la prima di tutte era il confronto con l’esistere. Lo abbiamo affrontato usando come pretesto la figura del Pinocchio; cosa gli succede nel momento in cui diventa un essere umano in carne e ossa. Poi la resistenza/esistenza con Ulisse, il suo viaggio e ritorno a casa. Un lavoro sulle resistenze quotidiane. E alla fine siamo arrivati a Luna Park dove abbiamo cercato di dare una risposta a queste domande e al senso della vita. A questo Dio che non risponde.
In queste domande a Dio quanto ha inciso la figura del Don Chisciotte?
Abbiamo cercato di attraversare il pensiero che sottende l’opera del Don Chisciotte. Non abbiamo preso tanto il personaggio e la sua storia quanto il modo manierista di affrontare il dualismo irreale/reale, materiale/immateriale, sogno/concretezza. Per questo il personaggio principale è un personaggio estremamente concreto non è di certo un eroe però è a suo modo un idealista, vede duelli impossibili in un pacchetto di biscotti mangiato nel bar della stazione, mulini a vento sulla luna, autovelox che sono altre cose, antenne che sono radar per cercare Dio in pausa pranzo. Ci siamo chiesti se possono essere dei Don Chisciotte moderni coloro che insistono nel vedere un’altra realtà oltre a quella esistente.
Che risposta vi siete dati?
Non arrendersi alla realtà che c’è ma cercare di privilegiare l’idea e l’ideale rispetto alla realtà. Questa è la metamorfosi, la cosa non è quello che è ma quello che rappresenta per me. Il nostro Don Chisciotte inventa cani immaginari e scarpe a lato della tangenziale in un modo tutto suo, per questo è incomunicabile e proprio per questo appartiene a tutti noi.
Il personaggio che avete creato assorbe come una spugna tutta l’umanità incontrata e che davanti a noi reinterpreta tramite il suo modo di guardare al mondo…
C’è il tentativo di contenere tutte le letture, sguardi e tempi in un momento preciso. Vale anche per gli stili teatrali, non abbiamo uno stile o un linguaggio o una poetica. Cerchiamo di non fossilizzarci in categorie o scelte e questo è un atteggiamento tenuto dall’ideazione, alla scrittura e alla realizzazione.
Estratto video dell’intervista con Simone Perinelli e Isabella Rotolo: