RENZO FRANCABANDERA e GIANNA VALENTI | Una vera e propria Motus full immersion quella proposta di recente a Torino al Festival delle Colline Torinesi che, giunto alla sua ventisettesima edizione, ha dedicato una monografica al duo di artisti basati in Emilia Romagna ma con una vocazione internazionale della loro pratica artistica.
Una immersione nelle visioni e nei linguaggi del gruppo italiano che dagli inizi degli anni novanta ha nutrito il proprio pubblico con drammaturgie dello spazio, dello sguardo, del corpo, del suono e della parola tessute o disperse sulla scena nella molteplicità delle coesistenze, delle direzioni e delle sovrapposizioni.
Di una parte importante della proposta abbiamo parlato su queste pagine nel contributo narrativo a cura di Gianna Valenti.
Il festival quest’anno tracciava, come evocato dal titolo dell’edizione, Confini e Sconfinamenti, un binomio che ci apre all’attualità delle diaspore e delle migrazioni del pianeta e al superamento di ogni confine tra linguaggi e generi artistici. In questa visione, la monografica dedicata a Motus è diventato un viaggio ininterrotto alla ricerca di sconfinamenti tra i diversi linguaggi della scena per la creazione di sguardi sulla violenza di ogni confine. A MDLSX, già andato in scena a fine ottobre, si sono aggiunte a novembre due performance alla Fondazione Merz, You Were Nothing But Wind e Of The Nightingale I Envy The Fate, entrambe nate dallo spettacolo Tutto brucia presentato allo stesso festival lo scorso anno. Il percorso monografico si è completato con proiezioni di video dei lavori del gruppo in collaborazione con il Museo Nazionale del Cinema (al Cinema Massimo sino al 6 novembre) e con la presentazione sempre alla Fondazione di una film-loop con materiali d’archivio della compagnia sin dai primissimi anni di attività e poi a The Others Art Fair con un’installazione fotografica dedicata ai 31 anni di attività.
Abbiamo intervistato Daniela Nicolò ed Enrico Casagrande a margine degli eventi.
Una personale come quella alla Fondazione Merz dentro un festival importante come il Festival delle Colline è sempre l’occasione per uno sguardo di insieme sull’evoluzione del proprio linguaggio. Quali sono i temi e le questioni che premono sul vostro bisogno di comunicare oggi?
È vero, è una occasione di riflessione a tutto campo, anche perché nel preparare i materiali per le retrospettive video e le installazioni abbiamo messo mano ai nostri archivi rivedendo tanto, tantissimo del nostro lungo percorso, riscoprendo anche momenti dimenticati… e sì effettivamente è emersa una inesauribile necessità di metterci a confronto con forme,estetiche, linguaggi sempre diversi, senza mai forzatamente ricalcare il consolidato o quello che ha avuto “successo”. Questo è avvenuto nel corso del tempo perché ogni volta ci siamo spostati a lavorare su ciò che per noi era urgente al momento: c’è sempre un legame più o meno diretto, con il momento politico, a volte è più esplicito a volte velato; ma ogni nuovo progetto è per noi l’inizio di un percorso di studio e ricerca, che può prendere derive diversissime, dalla dimensione più documentaria, come in Antigone, a quella più astratta e poetica come in Tutto Brucia e nel nuovo dittico performativo che abbiamo presentato alla Merz. Ci sono temi che in realtà ricorrono: l’alterità, il desiderio di insorgere e trasformarsi, l’uscita dalle categorie, tutte, rispetto al genere come rispetto ai linguaggi stessi: di fondo il tema dell’abbattimento dei confini (che fra l’altro era il titolo del festival) è la nostra più grande urgenza, così come il rispetto delle diversità e dei diritti civili, che con l’ondata nera che si profila al potere, sono sempre più a rischio. Non a caso il nostro nuovo progetto sarà su Frankenstein, dal punto di vista della “creatura” alla ricerca di amore, rifiutata dal suo creatore e abiurata da tutto il consesso sociale solo perché deforme, o meglio non conforme agli standard della cosiddetta normalità.
In questo scenario internazionale così imprevedibile a volte pare che la realtà superi la finzione scenica, spiazzando la rappresentazione fondata sull’istanza realistica. È una sensazione che condividete?
In che modo questo impatta sul vostro linguaggio che ha sempre a che fare con un rimando esplicito alla realtà?
In realtà in questi ultimi anni anche noi abbiamo abbandonato i “rimandi espliciti” alla realtà, soprattutto con il progetto sulle Troiane, lasciando il testo prosciugato parlare da sé per rivelare la sua intramontabile e drammatica attualità, e concentrarci sul potere evocativo delle immagini create dalle composizioni di corpi e voci: abbiamo anche rinunciato al video che per anni è stato nostro immancabile alleato nelle messe in scena, proprio per andare sempre più al di là della superficie delle cose, entrare dentro. In questo siamo controcorrente, perché è vero che molt* artist* internazionali sono sempre più tesi a spiazzare la rappresentazione per dare maggior spazio alla cruda realtà… esigenza che ben comprendo, e rispetto: ho sempre creduto in un teatro che provi a “significare” al di là mistero in esso implicito. Tutto sta nell’equilibrio con cui si dosano gli “ingredienti” ma personalmente ritengo che se si vuole cercare una certa “universalità” e trasversalità di comunicazione con pubblici diversi, di altre nazionalità e culture, è necessario prendere le distanze da un certo intimismo onanistico che caratterizza molto del teatro italiano, purtroppo: lo dico essendo stati a contatto con tanti operatori internazionali che lamentano proprio questa mancanza di coraggio nel prendere contatto con la realtà. Insomma è un equilibrio molto complesso, ma la potenza o meno di un’opera, al di là dei trend del momento, arriva se davvero nasce da una vera urgenza e visionarietà, quella che poi la rende capace di superare confini ed epoche.
Come nascono i lavori che avete presentato a Torino? Cosa hanno in comune ai vostri occhi non solo dal punto di vista poetico ma anche estetico?
Innanzitutto sono tre lavori nati in periodi diversi, di MDLSX se ne è già detto tanto, è un lavoro del 2015 che ha fatto il giro del mondo (pur non avendo mai avuto veri riconoscimenti in Italia – sorride NdR) che rispetto alle nostre produzioni precedenti mette il fuoco sulla biografia di Silvia Calderoni e la sua ambigua fisicità, intrecciandola come una specie di fake auto/fiction con il romanzo di Eugenides.
Uno spettacolo che ancora fa sold–out in tutte le sale (così è stato al teatro Astra) con tant* che tornano a rivederlo e flussi di giovani che si commuovono vedendolo per la prima volta, cogliendone la ulteriore necessità visto l’attuale governo oscurantista: in tanti a Torino ci hanno detto che oggi è ancor più significante: è un inno alla trasformazione e forse è questa parola, il link con le altre due performance, anch’esse dei soli, anch’esse incentrate sulle metamorfosi “mostruose” ma da tutt’altra angolazione e con il fuoco su due figure tragiche come Ecuba e Cassandra. Ancora figure femminili resistenti e significanti, ma mentre in MDLSX “è ordigno sonoro, inno lisergico alla libertà di divenire, al gender b(l)ending, all’essere altro dai confini del corpo), come recita il foglio di sala da me scritto. I due dittici dai titoli respingenti (Youwere nothing but wind e Of the nightingale I envy the fate) si collocano più in continuità con l’oscurità e il dolore che è al centro di Tutto brucia, spettacolo nato fra l’altro nel periodo cupo della pandemia, ancora non ottenebrato dalla guerra in Ucraina, anche se chi lo vede oggi pensa inevitabilmente sia costruito in reazione allo stato attuale: quando l’abbiamo presentato a Praga, invasa dai rifugiati di guerra, molto del pubblico in lacrime è venuto a ringraziarci per il lavoro… e questa per noi è la ricompensa più grande per uno spettacolo, quando riesce a parlare, a comunicare, attivando la riflessione anche in culture diverse. Penso che anche i due soli, “vento” e “usignolo”, così li chiamiamo, vadano in questa direzione, amplificati anche dal fatto che nascono non per il palcoscenico ma per spazi non teatrali: non sono frontali, nel primo il pubblico è disposto a cerchio e nel secondo su due file che si guardano con al centro la straordinaria Stefania Tansini (con lei per la prima volta abbiamo diretto una performance di danza). Il pubblico qui è davvero in una relazione di forte prossimità con le performer, volevamo questo, sentivamo bisogno di abbattere il confine della frontalità forzata cui il palco ti obbliga. È stato bellissimo presentarle in quello spazio magico che è la fondazione Merz di Torino, con un pubblico misto, fra appassionati di teatro, danza e arti visive, visto che era nel contesto di Artissima.
Come è cambiato nel tempo il vostro concetto di performatività e il lavoro sugli attori?
Non saprei dire cosa esattamente è cambiato, in realtà mi pare di attivare sempre le stesse dinamiche dai nostri esordi ad oggi: ovvero creiamo un clima di grande fiducia e orizzontalità, siamo molto all’ascolto cercando di valorizzare al massimo le risorse anche nascoste di ciascuno… e poi lavoriamo tanto su delle improvvisazioni guidate, facendo emergere tanto da chi partecipa, dalla creatività dei performer, inoltre lavoriamo sempre , fin dall’inizio, nello spazio scenico definito, con oggetti e luci/video perché anche gli elementi tecnologici e scenici sono parte della drammaturgia e determinano tantissimo il lavoro degli attori: ad esempio lavorare con un radio microfono implica un uso della voce completamente diverso, così come rapportarsi a uno spazio scenico speciale, come quello del dittico. Questa esigenza specifica è stata sempre presente anche dai nostri inizi, dove costruivamo vere scatole sceniche/magiche da far vivere agli attori.
Il vostro, pur se massimamente fisico, resta un teatro di parola, legato a una forma di comunicazione narrativa, dove i grandi temi del teatro cercano di trovare atterraggio nella complessità del presente. Quali sono le questioni che a vostro avviso trovano più riverbero nel pubblico? Che riescono a scendere più facilmente dal palco in platea?
Le questioni che più risuonano oggi sono – purtroppo – tantissime, dico purtroppo perché fondamentalmente, nel nostro caso, lavoriamo sempre sulle frizioni sociali, sulle intolleranze e sui tentativi di resistenza. Ora siamo molto legati (e seguiti) dal movimento transfemminista italiano e mondiale, che a nostro parere è la forma di insorgenza più inclusiva – perché non si cura solo dei diritti delle donne e delle persone trans, ma anche dei migranti, delle sex workers, dei diversamente abili, dei più fragili ed esposti alle ingiustizie del “turbocapitalismo patriarcale”, così come le tematiche ambientali e antispeciste: tutte le due edizioni del Festival di Santarcangelo, che hanno visto un enorme afflusso del pubblico più variegato, nonostante la pandemia – erano all’insegna di questi temi sensibili, ricordo che il titolo dell’ultima edizione 2021 era proprio “Festival mutaforme di meduse, cyborg e specie compagne” che dice tanto di noi e del pubblico che ci segue sempre più numeroso.
Il tema del pubblico teatrale è molto attuale, sia perché dopo la pandemia si è notata una fatica a tornare in sala, sia perché da anni c’è un trend sotto molti aspetti discendente. Al di là dello specifico che vi riguarda, e che ha sempre fatto registrare un seguito importante alla vostra poetica, quale pensate sia in questo momento il maggior limite del medium?
Sicuramente la programmazione sempre più standardizzata dei Teatri Nazionali, che non fanno che riproporre nei loro cartelloni le stesse produzioni oggetto di scambi. Sono molto dura su questo, ma non lo dico solo io, lo sento da come ci ringrazia il pubblico nel vedere qualcosa di “diverso” quando qualche direttore artistico ha il coraggio di metterci in stagione (noi e altre realtà del contemporaneo che stanno lottando sui linguaggi). Di fondo continuiamo ad essere “animali da festival” dove il pubblico infatti non manca… è nelle sale che è più problematico, specie rispetto alle nuove generazioni con e sulle quali non si fa un vero lavoro che permetta al teatro di competere con i social o le serie televisive che attraggono tantissimo (ma che non devono divenire il termine di paragone a cui assimilare gli spettacoli, il teatro, sebbene ibridato da tanti linguaggi, deve rimanere unico: ho visto troppi lavori di giovani gruppi appiattiti su modelli televisivi). Ripeto, tutto dipende dall’urgenza, quando un lavoro è potente, dialoga, interroga e inquieta anche la voce si sparge e il pubblico arriva: è la routine del consolidato e della coazione a ripetere il già fatto che uccide la potenza tellurica del teatro e allontana il pubblico.
Dati i limiti e i cambiamenti che il medium affronta nell’era digitale, questo ha modificato negli anni il vostro processo creativo? Se sì, come? Se no, perché?
Noi ci confrontiamo con l’immagine digitale da moltissimi anni, lavorando sempre con giovani artisti e tecnici “nerd” che ci hanno fatto scoprire mondi, producendo non solo spettacoli, ma installazioni video e performance di varia natura tecnologica. La proliferazione digitale avvenuta durante la pandemia, e il forzato ricorso al teatro “online” ha provocato in noi, al contrario, una sorta di rigetto, tanto che abbiamo deciso di fare Tutto Brucia senza video e ci siamo il più possibile astenuti dal fare opere su/per la piattaforma zoom rifuggendo quella che molti chiamavano “zoombificazione” – Lavorando al festival però abbiamo ricorso tantissimo al digitale per collegarci e partecipare a incontri con artist* e curator* da tutto il mondo e questa è stata una grande scoperta e nuova opportunità per collegarsi in modo sostenibile, evitando molti viaggi dispendiosi e faticosi per poche ore di incontro come avveniva in passato. Restiamo comunque e sempre con le antenne alte rispetto a tutto ciò che muta in quest’ambito perché in ogni caso è un’area in grande trasformazione da cui giungono spesso scoperte sconvolgenti e ardite: anche il nostro Frankenstein postumano tornerà a dialogare con il digitale e l’AI, inevitabilmente.
Che senso ha per voi lavorare insieme dopo tanti anni? Cosa vi dà il teatro? Cosa vi toglie?
È così tanto tempo che viviamo e lavoriamo insieme che non ci poniamo nemmeno più la domanda: è la nostra vita, tutta, da mattino a notte fonda, senza interruzioni perché vivendo insieme non c’è separazione fra privato e lavoro, prima di tutto perché per noi fare teatro non è mai stato lavoro, ma la realizzazione di un sogno folle che abbiamo inseguito sin da ragazzi senza nemmeno avere troppa coscienza di come fosse considerato dal senso comune. Abbiamo creato un nostro mondo, libero, collaborando solo con le persone che amiamo, senza imposizioni di alcun tipo: questa è la forza di essere una compagnia indipendente, oggi davvero minacciata dal sistema di sovvenzioni pubbliche, ma resistiamo e ci sentiamo davvero fortunati per questo, perché tutto ce lo siamo guadagnato pezzo per pezzo, creando, per tanti anni, senza contributi e riconoscimenti. Ora Motus è un’ “impresa di produzione” con persone assunte e finanziamenti pubblici, una struttura che crea lavoro, anche di questo siamo orgogliosi, perché progressivamente siamo passati dal lavoro nero (dividendoci semplicemente gli incassi), ad avere una posizione in regola degnamente retribuita. Questo passaggio è però ciò che toglie, succhia, assorbe tante energie, non per l’istituzionalizzazione in sé, ma per la machiavellica composizione delle leggi ministeriali che paiono agire per disincentivare ogni entusiasmo e specifica qualitativa, e premiare solo il numero.
Poi siamo dei pazzi bulimici e arrivandoci sempre nuove proposte fatichiamo a dire no, e quindi ci troviamo a trascorrere dei periodi eccessivamente carichi di impegni e responsabilità e, con l’aumentare degli anni, il superlavoro si sente, ma… che dire, questo nostro teatro è una malattia meravigliosa, alleviamo gli effetti collaterali della stanchezza e dell’estenuazione concedendoci, appena possibile, passeggiate nella natura, per staccarci dal monitor, ossigenare le idee e soprattutto rallentare.