SARA PERNIOLA | Lo spettacolo Caligula’s party ha fatto parte della rassegna La Sfera Danza, festival internazionale di danza contemporanea che si è concluso il 20 novembre scorso e che ha interessato Padova e il suo circondario. Ne abbiamo parlato qui. Oggi presentiamo la nostra intervista in esclusiva a Chiara Ameglio, regista ed esecutrice del solo.
Caligula’s party è un progetto che si basa sul tema della mostruosità, e quindi sulla consapevolezza che superare un certo tipo di limite – malsano e disumano – possa dare alla vita un significato malato, senza alcuna purezza. Quale è stato il processo che ti ha portata a costruirlo così?
É stato un processo lungo e intenso, pieno di andirivieni, punti fermi e contraddizioni. La cosa interessante che mi è successa è proprio questa: nel 2018 ero un’altra persona e ho presentato in inverno il primo spettacolo di questo progetto coreografico. Poi il tempo è passato e io sono, chiaramente, cambiata. Mi hanno consigliato, così, di leggere Caligola di Camus e, dal momento che mi piace molto spingermi oltre la canonica fruizione del linguaggio narrativo e teatrale, ho ritenuto questo testo uno strumento prezioso da combinare con la danza, al fine di far accedere anche un pubblico più abituato alla narrazione che all’astratto; per conoscere la danza non solo come formalismo, estetica e bellezza, ma anche come pathos espressivo, sperimentazione, segreti da rivelare. I miei due primi lavori, infatti, si concentrano maggiormente su questi ultimi elementi; Caligula’s party, invece, racconta di una auto-espulsione dolorosa, un sabotaggio personale, senza orpelli e senza essere edulcorato.
L’investimento emotivo, dunque, si delinea come una componente essenziale. Immagino quanto possa essere stato complesso per te “patteggiare” con un personaggio del genere, interpretando il furore dell’inammissibile e il suo indecente sistema di valori. A tal proposito, c’è stato mai un momento di crisi?
Sì, c’è stato. A un certo punto ricordo di aver pensato di non sapere più se avessi voluto interpretarlo. Mi sono stati molto d’aiuto il drammaturgo Aureliano Delisi insieme a Marco Bonadei. Mi ha ricordato che sì, stavo rappresentando Caligola, ma che io ero, sono, anche “C”: Cherea. Una sorta di sua antitesi, che dice all’imperatore che sa che cosa lo muove, ma che, proprio per questo, non può vivere sulla terra. Così, senza di lui, il mondo perde un po’ della sua pericolosità. “C” sta, però, soprattutto per Chiara; per me, a cui, al netto di tutto, è parso impossibile e insieme troppo semplice empatizzare con Caligola, ma la frattura che lui agisce su di sé e sul mondo, é destabilizzante, inumana. Abbiamo giocato in questo modo con le “C” durante lo spettacolo, proprio per sottolineare il riconoscimento e la disidentificazione tra i personaggi. Cherea, alla fine, è l’unica persona con cui Caligola parla e con cui vuol rimanere, poiché ne riconosce il valore e, a suo modo, si riconosce. Il punto, però, è che non riesce e non può arrivare a quella purezza e a quella visione dell’esistenza: l’unico strumento che ha per stare nel mondo è una distruzione e autodistruzione senza salvezza.
Anche il grottesco da mostrare, il quale non maschera alcuna aspettativa – reale o illusoria -, è un registro che permette di descrivere Caligola, ubriaco di disperazione. E questo nella tua performance è ben visibile. L’approfondimento su questo elemento è venuto fuori naturalmente o è stato ricercato?
É stato spontaneo, l’ho ritrovato nel testo. Mentre lo leggevo, pensavo: “È esattamente questo ciò che sto cercando. Io sto ridendo di una persona terrificante, che fa cose orribili nel pieno senso dell’assurdo, eppure non riesco a smettere”. Tutto questo mi ha attratta e ho pensato fosse giusto portarlo in scena, essendo perfettamente in linea con la figura del mostro e con ciò che mi interessava. Quel tipo di sarcasmo maschera la sobrietà della disperazione, così come i ghigni, i groppi in gola e i controvalori che lo muovono, altro non sono che il tentativo di rincorrere una celestiale fame di libertà e verità. L’ impossibile.
Lo spettacolo termina con un flusso di parole che fanno intendere quanto sia stato complesso, per te, interpretare il materiale narrativo e, grazie agli spunti inseriti, fa riflettere sulla contemporaneità. All’interno c’è un che di profetico, se pensiamo che quattro anni fa certe cose non erano ancora accadute. Come hai affrontato la constatazione dell’incredibile coincidenza tra le tematiche del tuo lavoro e le ultime vicende attuali?
Sì, è stato sempre più chiaro durante tutto il processo che occuparmi di questo tema significasse anche posizionarmi. Impossibile non farlo oggi, alla luce di quel che accade. Ho sentito la necessità, così, di rileggere il testo, rivalutare delle scelte. Penso alle storture valoriali, nello sfidare la norma e le regole approvate di Caligola, ed ecco qui che si palesa Putin. Cosa c’è, infatti, di più assoluto del desiderio di creare e poi di distruggere? Quanto potente può essere il fascino nello sguazzare in un delirio di onnipotenza? Quanto può essere difficile, se non impossibile, poi rinunciarci? Penso anche al gesto relativo al taglio dei capelli: quando l’ho creato – nell’agosto di quest’anno – alla base c’era una determinata intenzione, e poi, prima del debutto e dopo la situazione in Iran che ha fatto di quell’azione un simbolo, ho dovuto inevitabilmente ripensarci e leggermente rimodularlo. Penso, in realtà, a come certe cose non siano altro che dei cortocircuiti da cui poter far scaturire preziose riflessioni.
Questa era una prima nazionale. Come ti sembra abbia reagito il pubblico e cosa hai percepito e provato tu?
Per certi versi, è stato tosto. Anche perché sono consapevole dell’impatto scenico di alcuni momenti del racconto e quindi temevo di non poter essere compresa abbastanza. Mi viene in mente, ad esempio, la scena dei testicoli – che ho fortemente voluto. Un’affronto al pubblico e un’affondo nei temi del femminile, il patriarcato, fino all’androgino: anche nel testo di Camus Caligola si veste spessissimo da donna, da Venere, oscillando nell’ambiguità. É una cosa, dunque, che possiamo toccare con mano, che esiste da sempre. É giusto, quindi, dover attraversare anche questi argomenti, utilizzando la potente espressività del mezzo artistico, nonostante la durezza del concetto e della rappresentazione, che ho completamente sentito necessaria. Sono anche molto curiosa di conoscere come il pubblico possa leggere lo spettacolo: se possa vederlo con il taglio politico che comunque possiede (e su cui ci siamo concentrati relativamente poco, non essendo quello l’intento principale), o in senso più prettamente psicologico, di paesaggio interiore, fatto di chiaroscuri e pulsioni distruttive.
Anche la scenografia è un elemento portante di questo spettacolo: incisiva e piena di oggetti di grande essenza sembra prendere forma accompagnando Caligola nel suo processo di frattura interiore. È come se diventasse materia viva. Perché l’hai pensata in questo modo?
A me di base, del ricchissimo testo di Camus, interessava il personaggio di Caligola. Non la storia in sé, ma la perdizione di un uomo. Il percorso di dissidio interiore dell’imperatore all’interno di una storia. Ho iniziato a immaginare quest’uomo potente che, chiuso nella sua stanza, si prepara per mostrarsi al suo popolo. Quindi, si prepara a una festa. C’è proprio una parte del testo in cui Caligola dice a Cesonia, la quarta tra le sue mogli, di aver bisogno di pubblico, di spettatori che avrebbe invitato al “più bello tra gli spettacoli”. Così, ho continuato a immaginare che potesse allestire la sua stanza come se fosse un party, divertendosi molto: gli anelli si combinano con gli M&M’s, il cocktail con la candelina scoppiettante, i fantasmi del passato con la consapevolezza di essere solo. Dunque, a essere imperante è sempre la solitudine. Per questo, ho ritenuto che i palloncini neri, che troviamo dall’inizio alla fine e che Caligola man mano scoppia, avrebbero potuto simboleggiare alla perfezione questo concetto.
Quali sono i tuoi progetti futuri?
Spero che lo spettacolo possa girare un po’, incontrare il pubblico. Ci sono alcuni dialoghi aperti per cercare di proporlo anche all’interno delle stagioni di prosa, ma è ancora tutto in divenire. La trilogia sulla mostruosità si è conclusa, sospenderò per un po’ per lanciarmi nel nuovo spettacolo Please, Come! (ha avuto il suo primo studio quest’ anno al Festival Danza in Rete del Teatro Comunale di Vicenza) e moltissimo entusiasmo per i progetti futuri che coinvolgeranno Fattoria Vittadini in nuove sfide produttive.