ENRICO PASTORE | Čajka, “gabbiano” in russo, è sostantivo femminile, e nessuno seppe incarnare il suo spirito come Vera Komissaržèvskaja. Fu lei a salvare la prima de Il gabbiano all’Aleksandrinskij di Pietroburgo il 17 ottobre 1896 da un fiasco senza appello benché, per l’ostilità del pubblico, la sua voce fosse solo un sussurro. La sua Nina, delicata, colma del lirismo e delle contraddizioni insufflati da Čechov, fu l’unico personaggio a emergere in un mare di mattatori miranti solo a far brillare il proprio ampolloso accademismo.
Vera Kommissaržèvskaja fu sempre legata a Il gabbiano fino a far coincidere la sua vita con le sue atmosfere e aspirazioni. L’ultimo suo telegramma prima della morte ci racconta di un innamoramento mai cessato: «Nell’universo eterno e immutabile resta soltanto uno spirito – Čajka».
Vera Komissaržèvskaja nacque a Pietroburgo il 27 ottobre 1864 in una famiglia di cantanti lirici. Da loro forse ereditò la bellissima voce, con toni morbidi, avvolgenti, tanto ammirata dai poeti simbolisti e dal suo sterminato pubblico. Stanislavskij la ricorda appartata da tutti a cantare nostalgiche canzoni tzigane alla chitarra durante le prove de I frutti dell’istruzione, dove avevano recitano insieme nel 1891.
Benché ai suoi funerali tutti la ricordarono, nelle corone che accompagnavano il feretro, come una donna fragile come un fiore, un giglio infranto o un bianco mughetto, fu forte, impavida, capace di fare scelte difficili e gestirle con sicurezza. Piuttosto, personificava le contraddizioni di un’epoca, come ricorda Znoska Borodin: «Incarna un tipo di donna nuova che, come Nora, afferma la sua personalità, proclama il suo io e parte alla conquista dei suoi diritti […] ma in lei si esprime anche tutta l’angoscia di un’epoca catastrofica».
La Russia, infatti, all’inizio del Ventesimo secolo era dilaniata da lotte sociali che sfociarono in moti tumultuosi anticipanti quella Rivoluzione d’Ottobre ch’ella non vide mai. Il teatro rifletteva le dinamiche contraddittorie di un nuovo che lottava per nascere e di un vecchio sistema duro a morire. Il suo animo, perennemente alla ricerca dell’altezza, risultava eternamente insoddisfatto, incapace di trovare nella realtà la base per far emergere le sue alte aspirazioni.
Lunačarskij scrisse: «Non poté mai scollarsi dalle ali del proprio talento una cenere di lutto». Blok, parlando dei suoi splendidi occhi che tanto sapevano ammaliare chiunque la guardasse, annotò: «Vera Fedorovna Kommissaržèvskaja vedeva molto più lungi di quanto potesse un occhio comune, non avrebbe potuto altrimenti, perché aveva negli occhi una scheggia di specchio magico, come il ragazzo Kaj della fiaba di Andersen. Perciò, questi grandi occhi azzurri ci affascinavano tanto: il suo sguardo alludeva a qualcosa di immensamente più grande di lei stessa». Lo specchio della Regina delle Nevi però inquinava i pensieri e i cuori, creava angoscia e insoddisfazione, mali di cui Vera non seppe liberarsi mai.
Nel 1902 diede l’addio all’Aleksandrinskij dove recitò per lunghi anni. Benché i maligni ricondussero quella scelta a un’insanabile malanimo con la Savina, sua acerrima nemica, in realtà Vera Komissaržèvskaja non trovava più stimolo a recitare secondo i vecchi schemi accademici. Nemmeno i rivoluzionari esiti del Teatro d’Arte riuscivano a infiammarla e fu così che decise di aprire un suo proprio teatro in via Oficèrskaja a Pietroburgo. Il Teatro Drammatico durò solo due stagioni e nella sua breve storia riuscì, con alterne fortune e querelle mai sopite, a far emergere tutte le contraddizioni di un’epoca in cui visioni contrapposte dell’arte scenica si confrontavano senza esclusione di colpi.
Vera Komissaržèvskaja era vicina ai poeti simbolisti ospitati regolarmente nel suo salotto il sabato: Blok, Kuzmín, Sologub, tra i poeti, ma anche pittori e scenografi del gruppo Mir Iskusstva come Bakst e Sapunòv. In un primo tempo però cercò, per il suo nuovo progetto, di conquistare alla causa Čechov, il quale resistette. Fu questo rifiuto a spingerla definitivamente verso l’obiettivo di dar vita alla scena simbolista. Per raggiungere il suo scopo non vide altro regista capace dell’impresa se non Mejerchol’d. In comune nutrivano i dubbi verso il sistema di Stanislavskij.
Mejerchol’d giungeva a Pietroburgo proprio dopo aver abbandonato il Teatro Studio ed era già attirato nell’orbita simbolista. Vera per battere tutti sul tempo lo volle incontrare a Mosca nel 1906 ed entrambi si infervorarono per il nuovo progetto di stagione da cominciarsi nell’autunno. Questo fervore non durò a lungo, perché tra i due doveva conflagrare il conflitto tra il talento di una grande attrice e i dettami della nuova regia. Inoltre, Mejerchol’d avrebbe iniziato il suo periodo immobilista e gelido non propriamente adatto alle corde di Vera.
Suor Beatrice, Hedda Gabler, Pelléas et Mélisande, sono tutte opere in cui la critica e il pubblico non videro altro che lo strapotere di un regista che soffocava il talento di un’attrice immensa caduta in sua balia. In verità, i documenti e le lettere ci disegnano un quadro molto diverso, in cui Vera appare tutt’altro che un fragile colomba nelle grinfie di un rapace.
Vera Kommissaržèvskaja si mostra come una impresaria capace, decisionista, con un talento innato nel comprendere le regole non scritte del teatro (decidere, per esempio, se un debutto facesse più scalpore a Mosca o a Pietroburgo). Soprattutto, era lei ad assegnare le parti, e decisamente appare per niente supina alle decisioni di Mejerchol’d. Suggerisce, indica, propone, attenta ai minimi particolari. Il dissidio con il regista era piuttosto estetico e metodologico. Vera non poteva, né voleva andare laddove Vsevlod Emil’evič si stava dirigendo: il teatro convenzionale.
Una prova di questo fu proprio Balagànčik (Il baraccone) di Blok, la prima opera del regista a utilizzare le maschere della Commedia dell’Arte e la pantomima, evocando un teatro di burattini. Non fu un caso se Vera non recitò, e nemmeno fu un caso che la Verigina, giovane attrice anche lei insoddisfatta dal Teatro d’Arte, descrivesse lo spettacolo e il lavoro del regista con voce piena di entusiasmo. Due grandi flutti della storia convergevano e lo scontro era inevitabile. Lo spettacolo, infatti, fu causa di una grande alzata di scudi tra i simbolisti, sia Belyj che Blok lo criticarono. Il pubblico si divise. La rottura era inevitabile.
«Negli ultimi giorni, Vsevlod Emil’evič, ho pensato molto e sono giunta a una profonda convinzione: noi due vediamo il teatro in modo diverso, quel che Voi cercate, non è quel che io cerco. La strada che porta ai fantocci, questa è la strada che Voi avete percorso in tutto questo tempo […] ciò mi si è rivelato in pieno in questi ultimi giorni, dopo lunghe meditazioni. Io guardo il futuro negli occhi e affermo che per questa strada noi non possiamo procedere insieme». Con queste parole Mejerchol’d fu licenziato. Chiese pubblicamente sul giornale “Rus'” un arbitrato che gli fu concesso. Stanislavskij stesso era nella commissione la quale deliberò a favore della Komissaržèvskaja.
Vera, però, aveva visto giusto. Il teatro a cui lei aspirava non era più in vista. Le sperimentazioni del Teatro d’Arte, di Mejerchol’d e di tutto ciò che sarebbe venuto dopo il 1917, non erano più un luogo in cui un’artista come lei avrebbe trovato spazio. Stava giungendo il tempo del baraccone, non del tempio dell’arte.
Vera lo capì e nel 1909 decise di lasciare le scene: «Mi ritiro, perché il teatro in quella forma cui esiste oggi ha smesso di sembrarmi necessario, e la strada, che intrapresi alla ricerca di nuove forme, ha cessato di parermi vera». Decise un’ultima tournée che la portò nelle più remote province dell’impero fino a Samarcanda e Taskent. In queste città della Via della Seta la compagnia contrasse il vaiolo. Vera soccorse i suoi colleghi e recitò finché anche lei fu colpita dal morbo che la ricoperse di croste e pustole suppuranti. Perì il 10 febbraio 1910, nello stesso anno in cui morì Tolstoj. Si stava spegnendo il vecchio mondo e il nuovo stava per nascere con un ruggito di cannone.
I funerali durarono giorni. A ogni stazione folle commosse lanciavano fiori e versavano lacrime. Decine di migliaia parteciparono alle esequie rendendo omaggio a una donna che volle a tutti i costi cercare un teatro necessario, un teatro riformato dalle abitudini desuete dell’accademismo dei teatri imperiali. Purtroppo, in questa lotta perì molto prima di contrarre la malattia. Il nuovo che cercava era già diventato vecchio, e il nuovissimo non era più per lei. Il suo talento immenso fu stritolato da due terribili zolle tettoniche e non ebbe scampo.
Mejerchol’d lo capì e scrisse: «In effetti ella morì, non di vaiolo, ma del male di cui morì Gogol’ – l’angoscia. L’organismo stremato dallo squilibrio tra la forza della vocazione e i reali compiti artistici, assorbì il contagio. Anche Gogol’ aveva una malattia con un lungo nome latino, ma che c’entra?».
Tutto questo non toglie meriti alla lotta di Vera Komissaržèvskaja, una donna di grande talento, che seppe dar voce alle contraddizioni della propria epoca, un tempo storico tremendo per molte nazioni: il Finis Austriae, il Liberty, la Belle Époque, un mondo sul baratro di un capovolgimento che avrebbe cambiato tutte le regole del gioco, in Russia più che altrove. Vera Kommissaržèvskaja ebbe il coraggio di combattere per i suoi ideali artistici e per questo, nonostante fosse una diva, intraprese le strade più difficili.
Ne uscì sconfitta? Ognuno può rispondere secondo sentimento. Personalmente, credo che non si possa parlare di fallimento. Fu un tentativo meritevole e le due brevi stagioni del suo teatro diedero luogo non solo a esperimenti simbolisti interessantissimi e preziosi, ma misero a nudo le grandi questioni che stavano nascendo: quale il rapporto tra la regia e gli attori? Quali quelli tra testo scritto e scena? Quale il ruolo del teatro nel proprio tempo? Cosa doveva nascere dopo il naufragio dei teatri accademici?
Se Stanislavskij aveva la sua ricetta e se Mejerchol’d stava trovando la sua, Vera Kommissaržèvskaja cercò infaticabilmente le risposte senza riuscire a trovarle. Ella incarnò le contraddizioni della sua epoca, e fu suo grande merito cercare di sanare due mondi inconciliabili. Come Nina restò tra Trigorin e Treplev e per tutta la vita si immedesimò con quel gabbiano morto a cui cercò, instancabile, di ridonare la vita.