VINCENZO RICCIO | Nella cornice del Teatro Stabile d’Innovazione Galleria Toledo di Napoli, la voce di Maria Callas apre con Les tringles des sistres tintaient, dal secondo atto della Carmen di Bizet, Bye Bye Blackbird di ariaTeatro, compagnia trentina nata nel 2008 dall’incontro di diversi artisti, che ha portato in scena la pièce per la prima volta in streaming sulla piattaforma Retroscena per bypassare le chiusure-causa-Covid.

La chanson bohème dalla forte sensualità andalusa è decisamente radicata nell’immaginario comune quale rilassato momento di ebbrezza gitana alla fine di un pranzo tra i tavoli di una taverna sivigliana, e apre dunque con forte contrasto la condizione di solitudine che man mano, nel lento levare delle luci, si materializza dinanzi agli occhi dello spettatore: la voce di una radiocronista si inserisce debole per annunciare, in spagnolo, la personalità che accompagnerà lo spettatore nel corso della serata: Manuel Puig, autore e drammaturgo argentino, sceneggiatore fortemente affascinato dal divismo femminile hollywoodiano. Esiliato in Messico, qui termina di scrivere nel 1976 Il bacio della donna ragno, testo urgente e coraggioso già adattato per il teatro dallo stesso autore nel 1981, ostracizzato dalla dittatura militare di Videl per il suo essere anticonvenzionale.

Foto di Elisa Vettori

È proprio da questo romanzo che prende spunto Chiara Benedetti per la regia del suo Bye Bye Blackbird. In scena pochi elementi: due sgabelli e due coperte. I due protagonisti sono racchiusi in una cella delimitata da sei gabbie di taglio che accolgono lampade e fari intorno a un tappeto-danza circolare. Iacopo Candela Federica Rigon concertano luci mai invasive, per di più sui toni caldi del giallo a enfatizzare la condizione di intimità che si crea gradualmente tra i due, mentre il sottofondo musicale designato da Marco Sirio Pivetti accompagna con enfasi elettronica il passaggio dei giorni e degli stati d’animo.

Mentre la voce della Callas sfuma in quella di un voluttuoso tango di Carlos Gardel, Volver, entrano, guardandosi intorno come circospetti, i due personaggi, drammaturgicamente l’uno l’opposto dell’altro: Christian Renzicchi dà voce al logorroico e misterioso Jusef (Molina, nel romanzo), omosessuale dichiarato finito in cella per corruzione di minore e – si scoprirà poi – collaboratore del direttore del carcere ai danni del suo compagno di cella Marcel (al secolo Valentín), dissidente politico interpretato invece da Denis Fontanari, più duro e silenzioso.
Necessità per entrambi è riuscire a ingannare il tempo vuoto della prigionia. È per questo che il solido Marcel accetta, anche divertito, di ascoltare i racconti di Jusef, perdutamente innamorato delle dive del soul. Questi si lancia infatti nella fedele ricostruzione delle immagini di un film che ha per protagonista un’eterea cantante che raggiunge presto fama e successo – è chiaro il riferimento alla storia di Nina Simone.
Il piano irreale, dunque, diventa il rifugio eletto per escludersi dalla realtà della cella e vagare verso un mondo immaginario fatto di colori, paillettes e luci della ribalta.

Foto di Elisa Vettori

Da una pila che stringe tra le mani, buio tutt’intorno, vediamo Marcel comparire da un lato della cella fino a trovarsi faccia a faccia col suo alter ego Jusef, che gli porge un piatto: due silhouettes che si stagliano titaniche in un controluce caldo.
Chiara Benedetti raccoglie con fermezza la denuncia di Puig nei confronti della violenza fisica e psicologica attuata nelle carceri, che passa attraverso le continue pietanze avvelenate dirette a Marcel. È per primo Jusef, che ne è al corrente, a mangiare dal piatto cattivo per un equivoco: è sceso a patti con il direttore (scenicamente, per parlargli, si reca a un telefono all’esterno della cella) così da riuscire a ricevere a colloquio sua madre, malata, e ottenere la riduzione della pena. Tuttavia, è inevitabile che, seppur per mero spirito di sopravvivenza, una convivenza coatta porti a un riconoscimento dell’altro e delle sue alterità fino a conquistarne e a riceverne la fiducia. Così l’organismo ora indebolito di Jusef passa a essere, attraverso una dolce partitura di appoggi e carichi nel peso dei corpi su una lunga sequenza d’archi, quello ugualmente indebolito di Marcel, che si scompone e si contorce dal dolore, immersi entrambi in una luce fredda dai toni blu a sottolineare la simbiosi che i due cominciano a vivere.

Etichette a parte, si è figli di una sola condizione: quella di esseri umani, e dunque inevitabilmente deboli, fragili e bisognosi dell’altro. Lo stesso Jusef è combattuto, continuando a ripetere di non voler saper nulla delle beghe politiche del compagno. Certo i due sono più simili di quanto immaginano, entrambi avvolti da una forte nostalgia: di casa, di ideologie politiche, di famiglia, di amore. Di libertà. E in questo piano reale, però, non manca l’unione dei due corpi: intenerito dalla genuina bontà di Jusef, che continua a curarlo e a portarlo lontano con la fantasia, Marcel finisce per condividere con lui la sua carne e la sua ritrovata tenerezza nell’intimità della cella, illuminato soltanto il volto di Renzicchi schiacciato dall’altro contro una gabbia anteriore, sulle note di Mountain Made of Steam dei Silver Mt. Zion.

È destinata a Marcel l’ispezione del tempo vuoto: «A che cosa mi serve tutto questo tempo?», si chiede battendo i pugni su una delle gabbie, fino a lasciarsi andare ai ricordi (il suo piano irreale) scaturiti da una lettera ricevuta mentre ruota un dolce carillon e dalla regia parte una contrastante sezione elettronica. Nell’intrecciarsi delle due fragilità in scena la risposta è chiara e arriva in un monologo tratto dalla Primavera con un angolo rotto di Mario Benedetti, poeta e autore esiliato a sua volta durante la dittatura uruguaiana, il quale indaga la repressione, l’esilio e lo straniamento dell’io: «il corpo si adatta più facilmente dell’animo», scrive Benedetti. Marcel arriva dunque a capire che questo tempo vuoto offre l’occasione di maturare, di percepire i propri limiti e avvicinarsi alla verità del sé, nonostante il ripetersi delle giornate sempre uguali, che scenicamente si susseguono con il rapido alternarsi di buio e luce.

Foto di Elisa Vettori

La pièce si sviluppa nella ricerca della fiducia reciproca e della libertà, con una recitazione che da serrata diventa sempre più rilassata, specialmente nelle fantasie divistiche di Jusef, che compare alla fine ricoperto di paillettes per il suo gran debutto artistico, immerso in una densa nebbia che conferma la confusione del piano irreale, il suo, con quello reale, di Marcel, che intanto è a terra stremato per le torture e le sevizie militari.
Ottenuta la libertà, infatti, Jusef si è fatto carico di portare un messaggio al gruppo politico del compagno-amante, passatogli in silenzio nella condivisione di un lento sulle prime note di I Wish I Knew How It Would Feel To Be Free dell’amata Simone, onnipresente madrina nella rilettura di Benedetti. La musica continua sul racconto della scoperta del nascondiglio del gruppo da parte della polizia, ma Jusef scompare nella nebbia, muore nel suo sogno divistico: braccia aperte, di spalle, in controluce, inghiottito dal fumo e con una libertà finalmente conquistata («Tu hai la dolcezza della morfina, io quella della morte […] Mi seguiva la polizia, ma io non mi sono fatto prendere: sono stato più furbo di loro»). Scompare dunque all’interno della fantasia del sofferente Marcel facendo spazio all’amaro e alla rabbia che, mescolati, in sala generano un timido ma sentito applauso per una regia schietta ed essenziale capace di indagare con sapienza le nostalgie degli uomini e le vulnerabili realtà e irrealtà dove queste abitano.

BYE BYE BLACKBIRD

ispirato a Il bacio della donna ragno di Manuel Puig
regia e adattamento Chiara Benedetti
con Denis Fontanari e Christian Renzicchi
luci Iacopo Candela e Federica Rigon
effetti audio Marco Sirio Pivetti
produzione ariaTeatro

Teatro Stabile d’Innovazione Galleria Toledo
Napoli, 5 febbraio 2023