ESTER FORMATO | Prodotto dal Teatro Bellini di Napoli e diretto da Gabriele Russo, Don Juan in Soho – testo di Patrick Marber – ridona vita al buon vecchio Don Giovanni in una Londra tutta contemporanea, un antieroe cocainomane, in preda a una satiriasi che raggiunge una parossistica morbosità ai limiti di ogni sorta di perversione. Scabroso e menzognero nella continua dissimulazione, Don Juan vive nei meandri di una viziosa Soho, fra lusso e prostitute, offrendo di sé quella teatralizzazione intrinseca al suo essere che Gabriele Russo, che cura la regia, coglie con facilità e sulla quale crea uno spettacolo di grande impatto visivo.
Si potrebbe dire che Don Juan sia ormai una maschera cristallizzata nel teatro europeo, assimilabile vagamente ai personaggi della Commedia dell’Arte, tuttavia bisogna dire anche che egli riserva, nonostante tutto, quello slancio autentico che lo rende coerente, cristallino, mai ambiguo. La sua morbosa eccentricità è priva di contrasti, di grovigli nascosti sul fondo della coscienza ed è questo che rende la sua vita coerente sino all’ultimo istante e per questo, a suo modo, genuina.

Una prolessi anticipa, nella prima scena, la conclusione della storia; sull’assito troneggia un’enorme pedana che ruota in vari momenti dello spettacolo, a diverse velocità, sviluppando la sequenza dei quadri dalle sue varie angolature. Una galleria di personaggi – contraddistinti tutti dai notevoli e sgargianti costumi di Chiara Aversano, atti a esaltare ruolo e condizione –  rappresenta il microcosmo urbano in cui Don Juan si muove sotto gli occhi dello spettatore, immediatamente calato nell’ambiente della vicenda. Sin dal principio, durante il dialogo fra Stan (virtuoso Alfonso Postiglione) e Juan (interpretato da un istrionico e funambolico Daniele Russo), colpisce come la partitura drammaturgica sia letteralmente divorata da una recitazione dal ritmo sostenuto. L’intento è quello di restituire tramite tutti gli elementi scenici e recitativi il carattere famelico e aggressivo dell’universo in cui è agita la vicenda di Don Juan, e ovviamente la sua intima natura che non cede nemmeno alla paura della morte.

La scena, a cura di Roberto Crea, è una continua spettacolarizzazione in cui Don Juan è un grande showman. Questo è il paradigma che s’innerva nell’estetica del lavoro di Gabriele Russo, e per questo singoli quadri di tutta la narrazione sono concepiti con estrema cura della postura e della gestualità dei corpi, e accompagnano il pubblico in una corsa sempre più accelerata verso l’implosione finale. Questa velocità che percepiamo nei toni, nei cambi di scena a cui viene in soccorso la spettacolare pedana che conferisce al perimetro di azione quasi sempre una posizione sghemba rispetto al palco, è un ennesimo riverbero del continuo stato di eccitazione con cui vive il protagonista: questi, pur avendo conquistato la casta Elvira e averle dischiuso le gioie del sesso, non accenna a smorzare la sua sete erotica che si dipana fra orge e inseguimenti dell’oggetto del desiderio di turno.

La presenza scenica e drammaturgica del protagonista è tra l’altro amplificata dalla debolezza dialettica che incontra negli altri personaggi: oltre alla coerenza e alla proterva fedeltà di Elvira (Noemi Apuzzo) che è il vero non-io di Don Juan perché l’unica in grado di tenergli testa, vi è l’onnipresente Stan che, pur essendo gregario del protagonista, ne subisce i soprusi e si sottopone a un rapporto di dipendenza. Per non parlare del padre che è vittima della sua dissimulazione senza scrupoli, o dei fratelli della stessa Elvira che però saranno fautori dell’azione finale.
Intorno all’eccentrico antieroe si propaga l’ambiente chiaroscurale, smorzato da luci metalliche e fredde che ricreano una metropoli snervata da droga, sesso e alcool. Triade tutta contemporanea che però non basta a far emergere la profonda essenza di trasgressione del protagonista, almeno non per noi, oggi, anestetizzati dalla percezione relativista e che Marber cerca di sviare con un atto di tracotanza nei confronti di un clochard musulmano a cui Don Juan chiede di bestemmiare Allah in cambio di un prezioso orologio.

D’altro canto Marber punta a fabbricare una icona totalmente altra rispetto ai classici a cui si ispira, e Gabriele Russo ne coglie appieno il risultato, trasformando la vita di Don Juan in uno one man show, e lui in una maschera da reality la cui mediocrità morale fa il verso al maschio medio occidentale e si miscela con una gagliarda accettazione della conseguenze delle proprie scelte.
Quindi, il pregio dell’allestimento firmato dal Teatro Bellini di Napoli si articola proprio nella suggestione visiva che rende icastica e plastica l’avventura di Don Juan, una spettacolarizzazione della drammaturgia eretta a una cupa festa, una scatola impreziosita di virtuosismi scenici e di un’ottima componente attorale in cui si inabissa la miseria morale del personaggio. Una voragine fatta implodere, nell’epilogo, in slowmotion.
Alla fine, anche noi spettatori abbiamo giocato un ruolo attivo: siamo stati tutti voyeur che hanno costellato nel buio l’immaginifica parabola di Don Giovanni, vissuto questa volta a Soho.

DON JUAN IN SOHO

di Patrick Marber
Ispirato al Don Giovanni di Molière
traduzione a cura di Marco Casazza
scene Roberto Crea
costumi Chiara Aversano
disegno luci Salvatore Palladino
progetto sonoro Alessio Foglia
regia Gabriele Russo
con Daniele Russo, Alfredo Angelici, Noemi Apuzzo, Gaia Benassi, Claudia D’Avanzo, Gennaro Di Biase, Carlo Di Maro, Sebastiano Gavasso, Mauro Marino, Arianna Sorrentino, Alfonso Postiglione, Gianluca Vesce
Produzione Fondazione Teatro Di Napoli – Teatro Bellini

Teatro Elfo Puccini, Milano
22 febbraio 2023