GIANNA VALENTI | C’è una strana realtà sulla scena di La Tecnologia del Silenzio — proposta di Bluemotion, ideazione e regia di Giorgina Pi, produzione Teatro Astra di Torino per la stagione Buchi Neri — una scena dove la parola ci conduce ai grandi temi della sopravvivenza del Pianeta e dei suoi abitanti, ci fa attraversare ricordi personali e storie di vulnerabilità, così come ci fa riascoltare il pensiero dominante, capitalista e razzista, avvicinandolo al pensiero della filosofia della scienza femminista (la drammaturgia è di Erika Z. Galli e Martina Ruggeri – Industria Indipendente).
La parola ci guida attraverso un tessuto di pensieri poetici che si dipana senza sosta in una varietà di direzioni e che talvolta ci teletrasporta altrove, oltre il Pianeta e oltre la realtà visibile, per poi farci rientrare, velocemente, così come ci ha fatti allontanare. Passaggi dove le parole agiscono come proiezioni nello spazio e che ci arrivano con la velocità di un bagliore, mentre in altri passaggi le parole si distendono più lentamente, tessendo le trame di un linguaggio poetico che sa intrecciarsi a un linguaggio fantascientifico e quantistico.
Un tessuto di parole che tratteggia una realtà che non può essere disegnata, una realtà che rifiuta di essere confinata in una forma e che fa della molteplicità la sua priorità, nel desiderio di essere rappresentata. Una realtà che slitta costantemente attraverso l’uso della parola poetica. Una realtà che dichiara la propria presenza e la propria verità nel suo essere oltre la tridimensionalità. Ad agire la parola due personaggi femminili, una giovane donna che attende e una hostess, Cristina Parku e Monica Demuru. A loro supporto una band di soli uomini, Roberto Dell’Era, Valerio Vigliar, Andrea Pesce, Cristiano De Fabritiis, che si assottiglia man mano che l’azione si sviluppa, con i musicisti che lasciano la zona degli strumenti musicali per diventare presenze in scena, personaggi in attesa, personaggi silenziosi, personaggi/testimoni delle parole agite dai due personaggi femminili.
E la parola è già in scena come voice over quando si entra in sala. Una parola femminile forte e sicura che dipana ininterrottamente pensieri che non arrivano al corpo come forme razionali, ma come embodiement di un vissuto profondo, come concetti incarnati che sanno attraversare il corpo e usano il corpo per manifestarsi. La voce è di Donna Haraway, docente e femminista americana, con la sua speculative fabulation, ed è seguendo questa matrice apparentemente caotica, di vicinanza tra la science fiction e la realtà, tra l’ecologia e la poesia, tra il pensiero capitalista e la filosofia della scienza femminista che la scena di Bluemotion agisce.
La parola che si inserisce in una partitura sonora continua, talvolta semplice suono/presenza vibrazionale, talvolta suono/parola, talvolta canzone/testo. Una band con la funzione di coro al fondo della scena. Nel suono una stratificazione di voci che ci trasporta in un aeroporto, ma il tempo e i luoghi indicati sul pannello a cristalli liquidi al centro, sul fondo della scena, ci guidano a essere anche altrove. Del resto, nel lavoro, le parole ci informano spesso che le linee temporali si confondono e si accavallano e che tutto il tempo è sempre presente.
Quale tempo? E quale luogo? È davvero importante domandarsi del tempo e del luogo per comprendere la realtà del Pianeta e della scena? Sul cartello, a cristalli liquidi, nomi di luoghi; tra questi Ventotene, Atlantide, Angelo Mai. Gli orari sono oltre le 24 ore, 32.22 o 33.13… Ventotene e Atlantide, linee temporali assenti perché i voli sono stati cancellati, ma linee temporali riconosciute e recuperabili. Angelo Mai, un ritorno certo per il gruppo di artisti, una linea temporale solo ritardata, delayed informa la hostess. Strane stranezze, come quelle che la hostess toglie dal frigo bar a rotelle e offre ai personaggi in attesa. Del resto, la band/coro dedica largo spazio a un testo che scorre sul pannello a cristalli liquidi: “We are in a black box in a big black hole — big black box”
In questo intrecciarsi di linee temporali e di pensiero, tra realtà areoportuale, concerto rock, ecologia, science fiction, testo colloquiale, poesia, realtà quantica, è lo smaterializzarsi della realtà fisica dei corpi attraverso la parola ciò che più definisce questo spazio. Questa materia pensa, prova emozioni, ricorda, dice in più punti la giovane donna. Un’alleanza con la parola poetica per riportarci alle molteplici invisibilità dell’esistere che sulla scena sono tante e tali da far sembrare quotidiana normalità un’azione tra le due donne che nasce dal raccontarsi i sogni. Il linguaggio onirico, ormai parte della nostra quotidianità, non riesce a trasportarci come la descrizione della pista dell’aeroporto da una finestra immaginaria e il passaggio successivo dalla pista a Venere.
Poi, verso la fine, ogni suono si ferma, i musicisti, ormai diventati personaggi/testimoni, stanno, aspettano, ascoltano, accolgono. La parola, nel silenzio, è ancora solo agita dalle due donne. Il finale è di due monologhi uno in coda all’altro. I codici drammaturgici sin qui usati cadono. Le due donne/attrici, prima la giovane donna, poi la hostess, stanno e recitano al pubblico nella più classica modalità del monologo teatrale. La giovane donna, Cristina Parku, porta avanti una recitazione di credibilità cinematografica che è stata sua sin dall’inizio. La hostess, Monica Demuru, sin qui personaggio stilizzato, con movimenti e voce controllati, bidimensionali e distaccati; personaggio che descrive, che dà informazioni e collega destini, che sa muoversi tra la pista di un’aeroporto e il pianeta Venere con la stessa surreale quotidianità, qui si lascia andare, si siede, toglie la divisa, scioglie i capelli, crolla. Sì, perché il Pianeta soffre e il loop dell’inquinamento che lo soffoca lascia alla donna la responsabilità individuale attraverso il controllo del proprio corpo e delle nascite. Il finale è doloroso. Anche il personaggio della giovane donna agisce sofferenza, impossibile dimenticare le sue parole: “non voglio riprodurmi, preferisco i coralli rossi”.
I fumi tossici, gli oceani che muoiono, le barriere coralline senza colore, la fame nel mondo, i conflitti senza sosta, i muri che si alzano, le guerre per i confini, la natura che soffoca, la mancanza di risorse per la popolazione mondiale e il controllo delle nascite come piccola azione che ogni donna può scegliere per dare un respiro al Pianeta. Ma, improvvisamente, questa sofferenza così incisiva e questo pensiero restrittivo fanno sentire la mancanza di ciò che abbiamo vissuto sino a questo punto attraverso la scena, la mancanza degli spostamenti temporali e spaziali di un pensiero femminista e fantascientifico che osa altezze, atterraggi e slittamenti imprevisti.
Attraverso l’intero Pianeta, nuove comunità stanno dando vita a costellazioni famigliari al di fuori di quelle di nascita. Comunità che, attraverso la reta, scavalcano confini e poteri politici. Comunità che spesso scelgono luoghi in cui costruire, nel pieno rispetto dell’ambiente, nuovi modi di vivere e relazionarsi, onorando l’unicità dei talenti e dei desideri di ogni individuo. Comunità in cui ognuno costruisce liberamente la propria identità. Comunità in cui si racconta che i nuovi nati ci stanno portando conoscenze e tecnologie per il futuro e per la guarigione e trasformazione del Pianeta. Un’amica che lavora con i bambini ha chiesto loro di recente di scrivere di un superpotere che desiderano regalarsi e una bambina è invece ritornata con un regalo per lei: tre superpoteri — il potere del teletrasporto, il potere di parlare col mare, il potere del vedere nel buio.
spettacolo di Bluemotion
drammaturgia Erika Z. Galli, Martina Ruggeri (Industria Indipendente)
ideazione e regia Giorgina Pi
con Monica Demuru, Cristina Parku, Roberto Dell’Era, Valerio Vigliar, Andrea Pesce, Cristiano De Fabritiis
ambiente sonoro di Collettivo Angelo Mai
direzione musicale Valerio Vigliar
suono Daniele Tortora
luci Andrea Gallo
costumi Sandra Cardini
produzione TPE – Teatro Piemonte Europa