GIANNA VALENTI | Interplay – giovedì 25 maggio – Casa del Teatro
Un perimetro delimitato in bianco come nei contest dell’hip hop per Om(s) De Menage di Hamdi Dridi, qui in prima nazionale, un limite da superare per esprimere in danza la propria identità e le sfumature di questa identità; i corpi come strumenti percussivi attraverso il lavoro dei piedi, che è poi un lavoro dell’intero corpo; il corpo basso e radicato che genera ogni movimento, ogni spostamento e ogni gesto attraverso il legame privilegiato con la terra. Quel corpo, racconterà Dridi incontrando il pubblico al termine dello spettacolo*, è il corpo dell’hip hop ed è il corpo del lavoro manuale, quello della sua gente, nel Maghreb come da emigrati in Francia, ma anche di altre culture dove il lavoro manuale quotidiano e ripetuto dà vita a condensati di memoria e di presenza fisica che trovano spazio, espressione e senso nella sua danza.
I quattro danzatori, due donne dalla Polonia, Ewa Bielak e Maria Mikolajewska, e il danzatore uomo, oltre a Dridi, francese di origini portoghesi, Emmanuel De Almeida, si presentano al proscenio lasciandosi semplicemente guardare, in abiti quotidiani dai colori quasi spenti, in testa un foulard legato dietro sulla nuca, alla maniera delle donne in Africa, in Europa dell’Est o nelle nostre terre contadine o di mare. I primi movimenti sono il pulire con i piedi o con le mani alcuni punti della scena — battere e spostare i piedi per strofinare, spolverare, grattare, togliere, spazzare. Pulire come affermazione di un codice per il lavoro femminile nelle terre del Nordafrica e come richiamo di presenza in scena dei corpi femminili migranti nelle terre più ricche d’Europa. L’azione di pulire che si trasforma in danza. Quel gesto quotidiano, così banale, così ripetitivo, così riconoscibile, viene eletto a movimento danzato, viene onorato, e la coreografia che prende vita sulla scena comincia a trovare un senso nel corpo che porta il gesto nello spazio o che si concede spazi di pura danza per poi accogliere il gesto e farne una danza.
La striscia di carta bianca sul perimetro marca un dentro e un fuori. Si danza nello spazio interno, oltre la striscia semplicemente si guarda o si accompagna chi danza creando un ritmo. La musica è un sottofondo discontinuo di voci registrate in uno spazio pubblico, con canti in arabo in lontananza, come veli di presenze che passano sui corpi in scena. La musica è il suono ritmico che i danzatori producono con la loro danza, con i piedi che battono, rimbalzano e scivolano o con le mani che battono sulle diverse parti del corpo. La musica è il suono delle percussioni di chi non sta danzando e suona, oppure di chi integra gli strumenti nella propria danza.
Sono le due donne che iniziano a danzare in unisono, con un lavoro di piedi e gambe che si spostano, battono e rimbalzano, incrociandosi, girando o sprofondando, per riprendere forza e scattare in una nuova direzione e ricominciare. I piedi e le gambe che danno peso e scendono nel terreno per rialzarsi, alleggerire e scivolare. Le due donne agiscono con forza, ma anche con la leggerezza di un footwork intricato che ci riporta al tip tap o allo swing e ad altri canoni di derivazione afro-americana.
Una ricchezza storica e geografica, quella dell’hip hop, una danza che ha attraversato il Pianeta e che continua ad attraversarlo in una fluida contaminazione di codici e di stili. Le sue radici: dall’Africa all’America, dalle piantagioni alle sale da ballo, dalle comunità afro-americane e dai block parties al resto del mondo con la nascita del web. E ora, davanti a noi, con un contemporaneo che da lì prende forma, tutta quella memoria culturale che si fa presenza nei corpi che danzano sulla scena.
Dopo la danza delle due donne, un quartetto simmetrico e ordinato che è puro camminare e guardare, molto “contemporary dance”, dirà più tardi il coreografo nel suo incontro con il pubblico*. Un camminare che è portare lo sguardo oltre lo spazio fisico della sala, altrove. Parti in unisono con i piedi che si trascinano, il corpo abbassato e le braccia arrotondate ai lati come a trasportare qualcosa. Poi Dridi che digita con il telefonino in mano sull’esterno del perimetro. Una telefonata in viva voce in arabo con una donna. La telefonata è reale, ci racconta più tardi, era mia madre. Lo sguardo agito poco prima in scena era verso Tunisi, dove lei ancora abita. Questo lavoro è dedicato a lei, alla sua forza e al suo lavoro, e a tutte le donne, madri o nonne, sulla cui memoria i danzatori hanno lavorato.
A seguire, con il set batteria ricostruito e suonato dentro il perimetro della scena, un susseguirsi di duetti, a solo e momenti di gruppo, in cui il lavoro del corpo sostiene il gesto che danza, in una partitura che avvicina gesti forti e bassi di fatica, o di legame con la terra, ad altri più alti che viaggiano scivolando ed entrando nell’aria, come in molte danze popolari o nei riti propiziatori di memoria ancestrale.
Gesti che nascono dalla memoria femminile depositata nei corpi dei danzatori — una memoria che è nata nel Nordafrica, come in Polonia o in Portogallo, e che nel lavoro coreografico collettivo prende forma. Fare coreografia per onorare una presenza che è assenza fisica. Corpi nomadi che danzano facendosi casa, storia, Paese. Corpi che danzano per dare vita, nella distanza, a nuove realtà spazio-temporali. Pratiche coreografiche che condividono storie e memorie di corpi migranti e comunità coreografiche che inseguono nuovi valori, oltre ogni confine nazionale e culturale e che devono molto alle comunità transnazionali dell’hip hop.
I viaggi di Dridi: dalle strade di Tunisi con l’hip hop alla compagnia di danza della sua città diretta da Syhem Belkhodja, l’incontro con Maguy Marin nel 2010, un anno passato con lei, “la mamma di un’altra origine, una grande ispirazione” — un anno a Lione che ha avuto il valore di dieci anni. Il ritorno a Tunisi con la primavera araba, gli studi al CNDC d’ Angers e la successiva morte del padre. Il suo impegno per rendergli omaggio attraverso la danza — omaggiare proprio lui che non aveva creduto nel suo mestiere di danzatore. Così nasce, nel 2014, Tu (Meurs) De Terre, il suo primo a solo. “Io non ho inventato niente — si confessa — i coreografi sono mio padre e mia madre, un imbianchino e una donna delle pulizie”. Al lavoro manuale che si fa danza e alla danza che si fa lavoro è dedicata la sua coreografia successiva, I Listen (You) See.
Il corpo nomade di Dridi e i corpi dei suoi danzatori che trovano un senso nell’onorare la memoria degli antenati e della loro terra. Un modello drammaturgico che rende tutti equamente responsabili e una pratica coreografica che è condivisione di processi. Una danza assolutamente ibrida e non definibile che prende forma dall’unicità di ogni danzatore e dalla fusione delle diverse unicità. La sua compagnia, Cie chantiers publics, come comunità coreografica di corpi migranti che creano una realtà spazio-temporale che riassume e collega distanze e lontananze, che si nutre di gesti e movimenti del quotidiano che altri corpi hanno attraversato e di codici di danza che sono cresciuti nel viaggio e nella distanza.
Incontrare la storia e il lavoro di Dridi è stata un’altra opportunità unica offerta dal festival per dialogare con le pratiche coreografiche del contemporaneo e con i corpi della danza che incarnano visioni, talenti, memoria e storia.
* L’incontro con Dridi dopo lo spettacolo è stato condotto da Chiara Castellazzi
INTERPLAY 23 continua sino al 10 giugno.
A questo link potete scaricare l’intero programma.
Questo è il link biglietteria
OM(S) DE MENAGE >30’
CIE CHANTIERS PUBLICS HAMDI DRIDI (TU)
Di: Hamdi Dridi (TU)
Con: Ewa Bielak, Maria Mikolajewska, Emmanuel De Almeida e Hamdi Dridi
Musica dal vivo: Emmanuel De Almeida e Hamdi Dridi
Produzione: Chantiers Publics
Coprodotto dai partner di Étape Danse: Mosaico Danza/ Festival INTERPLAY, Fabrik Potsdam, CDCN La Maison Uzès Gard Occitanie, NÎMES Theater, and NEUF NEUF Platform/Cie Samuel Mathieu, Montpellier Danse Saison 2022/2023, DIR Regional Residency Program Brandeburg/Fabrik Potsdam, Mécénat Caisse des Dépôts
Con il supporto di: La Cigalière Theater – Serignan, Mazades Theater Toulouse, Fabrik Nomade/Multi Art Factory, Lavanderia a Vapore – Turin, Mécénat Caisse des Dépôts e Institut Français Paris
Artista presentato a RomaEuropa Festival 2018 con “Tu Meurs de Terre” e 2019 con “I LISTEN (YOU) SEE”
Vincitore con “Tu Meur(s) de Terre” del Primo Premio Les Hiveroclites 2015 di Les Hivernales Festival e Premio Roma 2018 dell’Accademia Nazionale di Danza di Roma
PRIMA NAZIONALE