GIORGIA VALERI | I misteri Eleusini rappresentavano una promessa di salvezza o di illuminazione per tutti coloro che imboccavano la via sacra che conduceva dall’agorà di Atene al santuario di Eleusi. Gli iniziati in cammino credevano che potessero così ottenere una conoscenza profonda della vita, della morte e del ciclo eterno della natura, basata su un sentimento di uguaglianza e condivisione che trascendeva lo status sociale di coloro che ne prendevano parte. L’esperienza collettiva si fondava sul senso di mistero, di segreto che permea l’esistenza umana e sul rispetto per la sacralità nel vissuto sociale e corale di una comunità di persone.
Davide Enia, lo scorso 10 giugno, ha ritenuto necessario invocare, in un dittico di ventiquattro ore, le atmosfere della Grecia classica per ricreare lo spazio della funzione originaria del teatro: la catarsi, la riflessione collettiva, l’espiazione delle colpe pubbliche con lo specifico intento politico di educare, discutere, creare sinergicamente una morale che possa essere condivisa all’interno dell’orizzonte cittadino, con il preciso obiettivo di fondare solide basi culturali e sociali nella “polis”.
Lo stralcio di strada che divide il Teatro Paolo Grassi e il Teatro Studio Melato, una passeggiata di dieci minuti che volge prima le spalle al Duomo e porta poi i passi verso il Castello Sforzesco e viceversa, ha delineato lo spazio di rappresentazione del progetto Eleusi. Dittico sul Sacro, in chiusura di stagione, che vuole essere innanzitutto il termine ideale della riflessione della produzione artistica del Piccolo Teatro appena conclusasi – quest’anno intitolata La misura delle cose – per creare una dimensione altra nella quale presente e passato, polis e metropoli, sacro, rito e teatro dialogano all’unisono.
La sorgente creativa dello spettacolo nasce dalla volontà del regista palermitano di effettuare una «risignificazione dell’esistente»: il Paolo Grassi, prima di essere preso in affido da Giorgio Strehler e Paolo Grassi, era stato la sede delle Legione Muti, responsabile dell’eccidio di Piazzale Loreto. Era stato teatro, ancor prima che nel letterale senso del termine, di violenze, soprusi, torture e omicidi da parte dei nazifascisti nei confronti dei partigiani. Le urla di questi ultimi, incastrate ancora inevitabilmente tra le pareti dell’edificio, vengono quindi liberate in una performance di venti minuti realizzata da Enia e reiterata all’inizio di ogni ora, durante tutto l’arco di ventiquattro ore: 21 performer si avvicendano sulla scena, su un fondale scarno ed essenziale, grigio, raggomitolandosi, compiendo azioni nevrotiche, strappandosi i capelli o i vestiti, fischiando, ma mai interagendo l’uno con l’altro. Le luci di scena seguono ciascun performer, qualche volta fendendoli, altre rinchiudendoli dentro un rettangolo luminescente soffocante. Due figure si appropriano della scena e la sovrastano: manipolano alcune figure solo con gesti, li costringono a soffrire, li denudano, li umiliano, li uccidono. Le parole non servono, se non per elencare gli strumenti di tortura e le metodologie con cui i nazisti perpetravano la loro violenza disumana.
Ed è proprio il tema della violenza che accompagna le riflessioni degli spettatori nella camminata tra il Grassi e il Melato: la ferinità delle azioni fasciste non si limita a un tempo circoscritto, ma continua a ripetersi nel tempo, attraversando tutte le culture. I movimenti compulsivi dei performer, infatti, diventano simbolo di una sofferenza universale a danno di vittime differenti ma accomunate da un comune destino di morte. Basti pensare alla Libia, al Sudan, all’Ucraina e a Verona.
Si arriva quindi al Melato, dove si susseguono ininterrottamente 30 gruppi corali dei Cori Lombardia APS, che si dispongono ogni volta in un punto diverso del teatro: sulle gradinate, sul palcoscenico, a destra e a sinistra o al centro. L’esperienza del pubblico quindi dipende dalle tempistiche di ciascuno, dalla prospettiva che si vuole assumere all’interno del teatro e al tempo che vuole dedicare all’ascolto delle esibizioni.
Impossibile tenere traccia di tutte le rappresentazioni, se non attraverso il senso ultimo dell’organizzazione contenutistica: il sacro, che emerge dalla scelta di musiche di carattere gregoriano o di non meglio identificata natura (potrebbero essere canti in latino, in tedesco, in inglese), è il nucleo generativo attorno al quale le voci si intrecciano e si levano verso l’alto, come in una cattedrale, e che si scontrano/incontrano con i monologhi di Silvia Giambrone sul femminicidio, la violenza o altri temi attuali.
L’attenzione, in un contesto simile, si divide tra l’ascolto di uno o dell’altro o segue il transito ininterrotto del pubblico, a testimoniare che l’esperienza teatrale è sfuggente, presente e irripetibile.
Un progetto quindi ambizioso, quello di Enia, che sfida non solo gli spazi del teatro ma la città stessa di Milano. Fa leva sulla curiosità degli spettatori che, però, si riconferma una ristretta élite di interessati e preparati che difficilmente si fanno impressionare da un tale congegno artistico, per quanto impeccabile.
La performance al Grassi è disarmante, struggente e ha un carattere estetico fortissimo, difficile da dimenticare, soprattutto per la cura della prossemica in scena: i corpi, nel finale, si ammassano, integralmente nudi, in una piramide umana che insegue un unico, piccolissimo spiraglio di luce arancione. Allo stesso modo, le esibizioni al Melato sono difficili da afferrare con la ragione e costringono gli spettatori ad affidarsi all’istinto e alla pancia, lasciando cadere domande sul senso nella passeggiata tra un luogo e l’altro.
Una macchina teatrale sicura e artisticamente ben curata. Rimane il dubbio sul fatto che un progetto del genere possa toccare davvero un pubblico generalista, come avrebbe voluto Enia, o si limiti a raccogliere una ristretta cerchia di pubblico.
ELEUSI – prima nazionale
produzione Piccolo Teatro di Milano – Teatro d’Europa