RENZO FRANCABANDERA | È andato in scena a luglio a Ravenna negli spazi di Palazzo Malagola, primo atto del nuovo progetto pluriennale del Teatro delle Albe, dedicato alla figura letteraria di Don Chisciotte, l’antieroe creato dalla penna visionaria di Cervantes, una figura che in ogni epoca ha saputo ricavarsi una straordinaria è surreale attualità come emblema quasi anarchico di una lotta contro l’assurdità del potere costituito ma anche come incarnazione di chi, pur sapendosi ragionevolmente e probabilmente destinato alla sconfitta, continua tenacemente le proprie battaglie per ciò in cui crede.
La creazione inaugura il Cantiere Malagola, che raccoglie l’eredità del Cantiere Dante che dal 2017 al 2022 ha coinvolto migliaia di cittadini nella messa in scena delle cantiche della Divina Commedia. Lo spettacolo si sviluppa negli spazi dell’omonimo, sede del Centro di ricerca vocale e sonora fondato e diretto proprio da Montanari insieme a Enrico Pitozzi.
Lo spettacolo, ovvero la prima parte del trittico che alla fine del progetto comporrà l’opera nella sua interezza, si ambienta tutto all’interno del palazzo: negli spazi della dimora storica ravennate si sviluppano due parti distinte sia dal punto di vista geografico che dal punto di vista stilistico drammaturgico; la prima parte si ambienta al chiuso, nelle stanze, per le scale, nell’atrio del palazzo, sostanzialmente in assenza di parole, se non per un breve prologo iniziale affidato a Ermanna Montanari che affacciata al balcone dà un surreale, poliglottesco benvenuto agli spettatori, in pieno stile Cervantes.
A quel punto il pubblico accede nel palazzo, invitato ad entrare da Marco Martinelli che, in abito da sera scuro, fa da elegante officiante alla cerimonia, da guida al viaggio iniziatico.
Si entra e ci si trova in un ambiente con numerose persone intente a cucire a macchina, e il pubblico si dispone perimetralmente in un ambiente rettangolare allungato. A tutti viene consegnato uno scritto, il racconto di un sogno: queste figure operose cuciono sogni mentre sul fondo, il grande illustratore Stefano Ricci, cui Bologna dedica questi giorni una mostra e che ha recentemente collaborato a diverse creazioni del Teatro delle Albe, disegna su una parete scura alcune immagini oniriche; i suoi segni grafici, le sue immagini, non sfuggiranno all’occhio attento degli spettatori nel seguito del percorso all’interno di palazzo, a fare da contrappunto iconico alle immagini reali, sebbene oniriche, che sono ricreate negli ambienti della antica dimora. Dal primo ambiente, infatti, a gruppi di 10-12 spettatori per volta, si viene fatti uscire dal primo ambiente e condotti in un giro all’interno del palazzo, in cui sono stati ricreati, incarnati, immagini chiaramente ispirate a dei sogni: campi di grano in una stanzetta; un triste pasto familiare a base di brodo di pollo con una gallinella in un recinto e la minestra sorbita con lentezza da alcune diafane commensali, ma senza l’ovvio uso del cucchiaio, bensì con la forchetta, cosa che rende l’operazione impossibile. Si passa di stanza in stanza, di sogno in sogno: una ricostruzione di un’infermeria del campo, scenario molto più reale che da sogno, ormai; a seguire una Wunderkammer piena di cianfrusaglie, a metà fra la stanza dello studioso pazzo e lo sgabuzzino teatrale.
nel meraviglioso sottotetto una sirena adagiata di spalle sul pavimento, mentre una donna nuda su scarpe con i tacchi, in un’altra stanza, taglia di tanto in tanto qualche ciocca di capelli in quella che sembra una sala da barbiere; due bambini giocano con la sabbia in una stanza con luci stroboscopiche, una macellaio con una mannaia gigantesca che fissa negli occhi gli spettatori che sfilano, una coppia nuda, di spalle, dentro un piccolo ambiente intimo. Un pout pourri di immagini capaci davvero di catturare lo sguardo, che trasportano dentro un universo simbolico sicuramente indecifrabile e fatto di tessere di mosaico scollegate ma a conti fatti capaci di introdurre dentro lo spazio del sogno, dell’assurdo, del simbolico, delle proiezioni dalla mente capaci di perturbare.
Aa quel punto, terminato questo silenzioso camminamento interno, si accede allo spazio esterno.
Ci attendono, oltre ai due “padroni di casa”, una serie di performer seduti lungo le pareti del giardino, sotto i grandi alberi. Veniamo invitati a disporci su una platea disposta nel giardino stesso, di fronte al palazzo stesso e ad un palco interno di poco rialzato da terra e alle cui spalle, quindi attaccato al palazzo, sul lato destro, una band dalle sonorità rock propone alcune melodie, perlopiù ritmiche, in attesa che tutti gli spettatori completino il viaggio all’interno e si portino all’esterno.
Dopo aver preso tutti posto a sedere, inizia la parte all’esterno della creazione, in uno stile drammaturgico in cui si leggono chiaramente la poetica e il modo del Teatro delle Albe per come evolutisi nei lavori partecipati degli ultimi anni. Il testo di Cervantes affiora qui e lì mentre quello a cui assistiamo, affidato nell’interpretazione a tre interpreti personaggi introdotti da Martinelli e Montanari, è niente altro che un’incarnazione delle figure di Don Chisciotte, Sancho e Dulcinea (interpretato da Roberto Magnani, Alessandro Argnani, Laura Redaelli): sono figure nel sembiante, ovvero nei costumi (Federica Famà, Flavia Ruggeri) che richiamano vagamente a un tempo che fu, ad un leggendario seicentesco sebbene non filologico ma solo accennato, dentro abiti che nell’immaginario rimandano alle figure letterarie.
La drammaturgia invece, pur rifacendosi ad alcuni topoi del testo di Cervantes, traspone le surreali avventure del cavaliere ingenuo nel presente.
E nel presente esistono tutte le contraddizioni del mondo digitale della società globalizzata, del mondo senza più appigli e riferimenti, in cui il sopruso e la sopraffazione sono così normali che questa figura, nel suo meravigliarsene, rivela la drammatica ingenuità che ormai nel nostro mondo non hanno più nemmeno i bambini, sottoposti come sono fin da subito al bombardamento degli stimoli della società dei selfie e delle narrazioni social, delle auto narrazioni, delle auto promozioni in cui la propria fragile realtà e la proiezione sociale della nostra identità si sdoppiano sin dalla tenera età:anche i bambini ormai diventano star di questo o quel social e non sono rare le fini drammatiche di queste figure che finiscono per crescere troppo presto, tanto nel numero di follower quanto nella vita, per trovarsi ad affrontare sfide improponibili per intelligenze di 12 o 15 anni.
È recentissima la scomparsa, peraltro ancora misteriosa, forse suicida, di una giovane quattordicenne star del web probabilmente vittima di quella stessa strafottente aggressività che ostentava in rete, giocando con mazzette di denaro e in abiti pop chic in modo ostentatamente volgare e aggressivo: la sua fragilità non ha retto a questo castello di sabbia.
Don Chisciotte con il suo illudersi di una possibilità di vita d’arte, di generici valori condivisi, di forme sociali fondate sulla fiducia, sulla la cooperazione, sull’amore puro, risulta quindi davvero ancor più combattente contro i mulini a vento nel tempo contemporaneo.
A questo punto lo spettacolo, giocato su una cifra drammaturgica leggera, ironica, la cui consistenza andrà poi riletta all’interno della più complessa struttura che avranno i prossimi due episodi della trilogia, diventa partecipato perché ad ogni replica partecipano un numero di volontari arrivati con la chiamata pubblica, e anche altre realtà, autosostenute comunità teatrali di tutta Italia. Sono incarnazione dei sognatori di oggi, così come un gruppo di giovani performer più stabili e organici alla pratica con la realtà ravennate, a cui pure viene affidata una parte di esemplificazione di quello che possono essere oggi i puri d’animo, quelli che credono ancora in un sistema valoriale organico.
Si alternano scene di massa, che rimandano ad alcuni episodi del classico spagnolo, ad alcune altre sequenze recitate dei tre protagonisti in un clima tragicomico cui non manca la gradevolezza. L’episodio -ricordiamo il primo atto della nuova trilogia- non è un vero e proprio finale, anzi si ferma proprio per così dire di colpo: Martinelli arriva in scena, interrompendo l’azione, e dice proprio che l’episodio finisce in quel punto, e che poi continuerà l’anno prossimo nella nuova creazione: un’uscita quasi traumatica dal sogno spettacolare ma che non è estranea all’esperienza soggettiva che spessissimo facciamo, quella di dover vedere i sogni interrotti in modo brusco, in quel riportarci alla realtà che è proprio specifico dell’atto teatrale, che ha una sua fine, è che costringe lo spettatore, comunque ritornato nel suo quotidiano, a dover farne sintesi.
DON CHISCIOTTE AD ARDERE
opera in fieri 2023
con: Alessandro Argnani, Luca Fagioli, Roberto Magnani, Laura Redaelli, Marco Saccomandi.
Guide: Cinzia Baccinelli, Alice Billò, Vittoria Nicita, Marco Saccomandi, Marco Sciotto e Anna-Lou Toudjian.
E con: cittadini e cittadine della Chiamata Pubblica, gli attori delle Albe insieme a Martinelli e Montanari
musiche: gruppo Leda: Serena Abrami, voce/synth; Enrico Vitali, chitarre; Fabrizio Baioni e Paolo Baioni, batteria/impulsi e segnali metallici; Giorgio Baioni, basso. Sound design Marco Olivieri
disegno dal vivo: Stefano Ricci
spazio scenico: Ludovica Diomedi, Elisa Gelmi, Matilde Grossi;
costumi: Federica Famà, Flavia Ruggeri; disegno luci: Luca Pagliano, Marcello Maggiori;
direzione tecnica: Luca Pagliano, Alessandro Pippo Bonoli e Luca Fagioli.
Palazzo Malagola si trova a Ravenna, in via di Roma 118.