ELEONORA MELIS D’ORAZZI | Rabbiosa, assetata di vendetta, con il cuore consumato per l’abbandono di Giasone: ha questa cifra fondamentale la Medea euripidea, riportata in scena, in atto unico, al teatro greco di Siracusa (Sicilia), dall’11 maggio scorso fino al 24 giugno, e interpretata dall’artista pluripremiata Laura Marinoni, diretta, insieme a un interessante cast di attori, da Federico Tiezzi e con la traduzione del testo classico di Massimo Fusillo.
La produzione, come quelle degli altri grandi allestimenti presso il teatro di Siracusa, è firmata dall’INDA (Istituto Nazionale del Dramma Antico), attivo dal 1998 nel riportare i grandi classici del teatro antico affidandoli a nomi di spicco della regia e dell’interpretazione teatrale; anche in questa occasione l’allestimento non delude le aspettative del numeroso pubblico, per una delle tragedie più celebri di Euripide.
Le Scelte stilistiche audaci dello scenografo Marco Rossi e della costumista Giovanna Buzzi sviluppano un incontro di giochi cromatici e di contrasti fra toni freddi e pungenti: il bianco, il blu, l’argento, il verde acido; la scena ha un’impronta architettonica essenziale, senza cercare di voler riportare in scena abiti coerenti con il tempo in cui Euripide scrisse l’opera, per le Grandi Dionisie del 431 a.C.
Ma rilevante ai fini della caratterizzazione dei personaggi è anche l’uso che viene fatto delle maschere.
Gli uomini indossano giacche e cravatte con il volto coperto da maschere raffiguranti aggressivi animali selvatici; Creonte, Re di Tebe, irrompe nella scena strisciando, indossando sul volto una maschera che raffigura un coccodrillo famelico che si scontra duramente con una Medea in preda alla collera.
La Medea di Laura Marinoni è possente, “forte come una roccia”, (così la descrive la nutrice che da anni convive con la donna), sicura e decisa, ma a lei spetta indossare la maschera dell’annunciazione della morte; come una predatrice verace in attesa della sua preda, enfatizza il suo desiderio di vendetta, indossando la maschera di un animale annunciatore di messaggi nefasti e infernali, con un lungo becco e grandi occhi profondi; Medea è il corvo; Medea è la morte.
Per la resa simbolica dei piccoli figli in questo accostamento fra carattere umano e regno animale, Federico Tiezzi sceglie un animale inerme: indossano teste di coniglio; i fratelli nati dal matrimonio con Giasone, interpretati dai giovanassimi Francesco Cutale e Matteo Paguni, sono candidi, puri, bianchi, sempre sotto la guida del loro pedagogo che li istruisce e li guida durante il percorso di crescita, un brillante Roberto Latini.
L’unico a non indossare alcuna maschera è il protagonista maschile, interpretato da Alessandro Averone, che quasi pare un borghese inglese di atri tempi; per le altre presenze femminili in scena, invece, piume vaporose, lunghi mantelli e abiti di colore blu che contrastano con i toni chiari del marmo che circonda l’intero teatro.
Una scenografia minimal quella ideata da Marco Rossi; al centro un lungo tavolo rettangolare wenge, con due sedie poste agli estremi, nel senso della lunghezza, come fossero due troni, due postazioni contrapposte.
Il cromatismo voluto da Rossi crea un gioco espressivo dato dal bianco avorio della piattaforma luminescente del palcoscenico e il blu elettrico dei mantelli svolazzanti che vestono le figure femminili del dramma, eleganti e ricamati con preziose piume di pavone, a simboleggiare le stelle, l’universo, la luna, la volta celeste.
In questo spazio, caratterizzato anche dalla presenza a destra e sinistra del tavolo, verso il fondo della scena, di due grandi parallelepipedi di metallo alti oltre due metri, che paiono quasi grandi case vuote, si muovono gli attori nel susseguirsi delle scene: i parallelepipedi simboleggiano le mura delle due dimore, dove vivono rispettivamente Medea e Giasone con i loro figli.
Emblematica è senza dubbio la scelta di delineare fin dai primi istanti della rappresentazione: il dolore di Medea.
Le voci lamentose del coro degli allievi e allieve dell’Accademia d’ Arte del Dramma Antico, guidato da Silvia Colasanti sono il primo elemento che viene proposto al pubblico; voci che iniziano a supplicare gli Dei con una preghiera, un auspicio di speranza per cercare di fermare l’ira sanguinolenta di Medea che da lì a poco si espanderà però in modo incontrollabile.
Apre la scena Barbara Zuin con il ruolo della nutrice, recando in scena una pesante valigia che porta dentro il peso dell’angoscia di Medea: la protagonista soffre e grida da dietro le quinte e con strazianti lamenti di disperazione preannuncia la sua vendetta.
Nel mito, Medea, nata dal connubio genitoriale tra Sole ed Inferi, si presenta con una rara personalità dotata di poteri magici, i quali le hanno permesso di rendere al marito Giasone la vittoria assicurata durante molte battaglie, e in ultima analisi la conquista del potere. La vicenda sentimentale ha un finale drammatico e si conclude con la donna ripudiata dall’uomo, che segue la passione consumatasi nel letto di un’altra donna che lui deciderà di sposare, lasciando quindi Medea.
Si assiste a uno scontro tra mondo maschile e femminile, tra classicità e modernità, in cui due differenti culture (Medea appartiene al mondo magico, Giasone alla società dell’antica polis) si scontrano fino ad annientarsi l’una con l’altra, fino a non lasciare più nulla di quella vita familiare che fino a poco tempo prima esisteva in una realtà ben diversa.
La maga porta addosso l’ombra della vergogna che pare non solo un ricordo del mondo antico: quella stessa vergogna ancora oggi è nei volti di molte donne appartenenti alla società moderna che dipendono economicamente dei loro mariti e si sentono fortemente legate dal quel “sì” pronunciato nella cerimonia coniugale, quasi fosse un patto di sangue indissolubile di cui sono prigioniere.
Vediamo una Medea sanguinaria, decisa, lucida, infuriata che decide di dare una sua personale interpretazione del “finché morte non ci separi”.
Nella vicenda tragica, in preda ad un’estrema consapevolezza, quasi agghiacciante, la protagonista decide di spezzare i legami affettivi a cui il marito teneva di più, decidendo di uccidere prima all’altare la futura sposa di Giasone, consegnandole in dono una diadema impregnato di veleno mortale e un mantello che la farà morire di dolore; come se questa sofferenza non le bastasse in preda a un momento di estrema lucidità compie il gesto più innaturale che la terra conosca; come lei ha creato e ha dato la vita, la toglie ai figli nati dalla sua unione con Giasone.
La scena finale rievoca lo scenario teatrale del V secolo dove la protagonista tramite una gru (in greco mēkhanē, era una sorta di gru usata nel teatro greco) viene innalzata al cielo come se camminasse con un carro, chiudendo con il monologo struggente che racchiude tutta la sofferenza e la drammaticità che la Marinoni interpreta in modo particolarmente intenso.
Il pubblico accoglie la recita con particolare apprezzamento per l’interpretazione viva e quasi violenta della attrice protagonista, della quale Tiezzi esalta con le scelte registiche la particolare solitudine, dentro una cornice di senso che vuole oggi come allora il sensibile maschile e quello femminile distanti, a volte incomunicabili, opposti ai due lati del tavolo dei sentimenti.
MEDEA
Opera di | Euripide
Regia | Federico Tiezzi
Traduzione | Massimo Fusillo
Scenografo | Marco Rossi
Costumista | Giovanna Buzzi
Disegno luci | Gianni Pollini
Maestro del coro | Francesca Della Monica
Arrangiatore coro e voci | Ernani Maletta
Regista assistente | Giovanni Scandella
Musiche originali del prologo | Silvia Colasanti (eseguite dal coro di voci bianche e orchestra del Teatro dell’Opera di Roma, diretti da Giuseppe Sabbatini e da Carlo Donadio)
Assistente scenografo | Francesca Sgariboldi
Assistente costumista | Ambra Schumacher
Direttore di scena | Nanni Ragusa
Assistente direttore di scena | Dario Castro
Assistenti arrangiamenti coro e voci | William Caruso
Produzione INDA. Istituto nazionale del dramma antico
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