RENZO FRANCABANDERA | Si è concluso con una grandissima partecipazione di pubblico a tutti gli eventi in programma il primo weekend di B.Motion 2023, dedicato alla programmazione sulla Danza, e sta per prendere avvio quello dedicato al Teatro.
Il weekend appena trascorso ha visto davvero una partecipazione incredibile della comunità, sia come pubblico sia come partecipante alle attività laboratoriali, che da anni vengono poste in essere sul territorio come parte integrante dell’azione del festival sul territorio, come il progetto Dance Well, che ha ora declinazioni e presenze in tutta Italia. Questa edizione di B.Motion ha accolto al suo interno un modulo laboratoriale educativo proprio per formare i nuovi trainer e professionisti per i laboratori che verranno avviati un po’ ovunque in Italia e all’estero, con persone affette da specifiche problematiche come quelle dell’Alzheimer, ad esempio.
Ma a volte l’arte è la ironica ragione stessa del disagio. È il caso ad esempio di Andrea Costanzo Martini e della sua creazione Mood Shifters, proposta all’interno della chiesa di San Giovanni nella grande piazza al centro di Bassano.
Il pubblico circonda su quattro lati il tappeto danza quadrato e l’interprete entra in scena accompagnato da altre due performer. La forma della creazione abbatte quasi subito la quarta parete e si sviluppa con un codice che ricalca davvero un numero di clownerie.
Ma proprio come nelle migliori tradizioni della maschera triste da circo, ad un certo punto comico e tragico iniziano a trovare coesistenza, come d’altronde il titolo stesso suggerisce, intorno al tema dell’arte come bisogno ma anche dell’arte bisognosa.
Ecco dunque i tre artisti diventare improvvisamente mendicanti, questuanti, alla ricerca di quel denaro che dovrebbe garantire a ciascuno di loro autonomia, la possibilità di continuare a fare arte senza l’assillo del domani.
Dal punto di vista strettamente artistico, il lavoro segna una modifica del codice e del gesto di Costanzo Martini che, pur restando vicino a quella gestualità esasperata, a quei movimenti sincopati e animaleschi quasi da gru ferita, cerca una fluidità diversa dentro una sincronia di gesti veloci e combinazioni coreografiche a tre, che in alcuni momenti raggiunge esiti mirabili.
Nella conferenza di incontro del giorno dopo, nei Giardini Parolini il coreografo, pur nel fitto calendario di impegni che la sua innegabile cifra creativa gli permette, confessa che per lui l’orizzonte delle autonomie e delle progettazioni arriva al massimo alla fine dell’anno prossimo, come a voler dire che davvero chi vuole fare arte in modo indipendente si trova in questo momento davanti a difficoltà colossali.
E difficoltà sono anche quelle che ha attraversato Francesca Pennini, membro storico e in qualche modo leader creativo di Collettivo Cinetico, fra le più interessanti realtà italiane attive all’intersezione delle arti performative. L’artista apre Manifesto Cannibale al teatro Remondini di Bassano proprio raccontando del tema dell’immobilità cui è stata costretta nei mesi passati.
Sul palco dietro di lei gli altri elementi del gruppo, nudi e sdraiati per terra, di lì a poco inizieranno a muoversi non appena qualcuno del pubblico avrà tirato un cordino legato alla luce di uno di loro.
A quel punto prenderanno il via una serie, circa una decina, di quadri viventi, mini coreografie dal tratto spesso giocoso ma esteticamente curatissime, ambientate in uno spazio minimal di bianco intenso, sia sul pavimento che a fondale. Sulla sinistra del palco un pianoforte. Disposti nel resto dello spazio scenico e all’inizio nascoste da lenzuoli ci sono delle piante, che verranno via via scoperte e rivelate all’occhio del pubblico.
I Lieder di Schubert sono la colonna sonora di questa creazione che ha una scansione ben precisa: questi quadri sono un’anticipazione del vero e proprio manifesto, un lungo proemio concettuale, che anticipa i temi estetici alla base della ricerca, che si fonda sull’interruzione, la stasi, l’attesa, il guardare, il non poter guardare, il rapporto con l’immobilità dell’universo vegetale, tutti elementi che congiungono fra loro i quadri di cui la prima parte si compone e a cui la Pennini non assiste, coperta da un lenzuolo, pur restando fisicamente seduta dentro lo spazio scenico.
Il lavoro ha avuto una genesi lunga e composita, iniziando alcuni anni fa con una serie di residenze fra le quali una a Dro che avevamo anche testimoniato. La sfortunata serie di incidentalità che ha colpito nel recente passato la Pennini ha poi spinto lei stessa a cedere per così dire le redini creative del lavoro ad Angelo Pedroni, altro elemento storico di Collettivo Cinetico, per portarlo a finalizzazione in vista di questa nuova e definitiva versione. Dopo la sezione dei quadri preparatori della durata di circa un’ora e un quarto, c’è poi un momento di riposo, una pausa della durata di 12 minuti, il Vomitorium, come scherzosamente loro stessi nel foglio di sala chiamano questo elemento di interruzione, evidentemente rifacendosi ai baccanali romani.
Alla ripresa, si entra in sala e si assiste al vero e proprio spettacolo ovvero a Manifesto Cannibale.
I per former sono tutti nello spazio scenico e danzano con le cuffie alle orecchie mentre gli spettatori non ascoltano se non echi lontani di lacerti sonori: quello che arriva alla fine è una interruzione che li congela in una posizione che da quel momento in poi dovranno mantenere, fino a sfinimento delle proprie forze.
Una prova di resistenza apparentemente agevole ma che con l’andare del tempo si rivela drammatica, in un incrocio di sguardi in cui il pubblico non sa per cosa tifare, se per la fine della prova di resistenza, o per qualcuno dei performer che arrivi più in fondo degli altri, o che fallisca prima degli altri. È in questo, nello sguardo dello spettatore che chiede crudelmente all’artista la sua sconfitta o il suo successo, la crudeltà antropofaga che il titolo della creazione evoca?
Si può dire che in realtà il sentimento di attesa, le emozioni che ruotano intorno a questo momento sospeso di stasi sono invero assai mutevoli e ne abbiamo prova anche il giorno successivo quando nella chiesa di San Giovanni assistiamo a Urutau, l’esito del laboratorio che Collettivo Cinetico ha condotto con una serie di giovani performer che hanno partecipato ad una call. Si tratta di uno degli esperimenti di residenza e laboratorialità che OperaEstate B.motion ha voluto in questa edizione.
E l’episodio creativo è una variazione sul tema del Manifesto proposto il giorno precedente: i giovani attendono il pubblico nello spazio della chiesa, anche in questo caso disposto sui quattro lati del tappeto danza.
Sono tutti in piedi i giovani protagonisti e indossano le cuffie che fanno loro sentire le musiche o altro che al pubblico non è permesso ascoltare: gli spettatori ascoltano altro, altre tracce sonore mixate dal vivo dalla regia. I performer si misurano i battiti, le pulsazioni con le dita, tenendole poggiate sul polso o sul collo.
Ad un certo punto iniziano dei movimenti che diventano via via più frenetici, una danza di gioventù, bella, libera, che culmina con l’ingresso in scena di Francesca Pennini con un enorme pallone rosso: cammina lentamente fra i ragazzi che si muovono frenetici e ad un certo punto con uno spillo buca il pallone.
Da quel momento si attiva un meccanismo identico a quello già visto in Manifesto ma con un numero di partecipanti decisamente superiore. La tenacia di alcuni porta la prova di resistenza anche in questo caso a durare davvero un bel po’, e anche in questo caso gli spettatori, pur potendo lasciare lo spazio liberamente, scelgono di restare e diventare testimoni di questa tenzone all’ultimo cedimento.
Vedere queste identità giovani alla prova, chiudere la propria esperienza guardando il pubblico, pulendo il trucco sulle guance con un lenzuolo, lo stesso per tutti, messo lì al centro del palco, a metà fra orgoglio e sconfitta, diventa un po’ metafora della vita: un’esperienza forte sia per chi è nello spazio scenico che per chi osserva.