LAURA NOVELLI | Possiede la semplicità espressiva di certe regie di Peter Brook e, insieme, la dirompente energia “politica” dei migliori allestimenti del Living l’ultimo, importante lavoro della compagnia bielorussa Belarus Free Theatre che, intitolato Red Forest, è approdato nei giorni scorsi al Vascello di Roma per le Le vie dei festival e poi, in replica, a Modena all’interno di Vie. Si tratta di un ennesimo atto di coraggio, di un’ennesima assunzione di responsabilità civile da parte di un gruppo di (bravissimi) teatranti che – fondato a Minsk nel 2005 dal giornalista e drammaturgo Nikolai Khalezin e da sua moglie, la produttrice teatrale Natalia Koliada – ha costruito sulla dissidenza alla dittatura, sulla denuncia, sulla “necessità” di provocare dibattiti e azioni politiche, sul bisogno reale di credere in un mondo migliore tutta la sua storia umana e artistica (e basti considerare lavori come Beeing Harold Pinter, Zone of silence, Discover Love). Da qualche tempo la compagnia – insignita, nel 2008, sia del Premio dei Diritti dell’Uomo della Repubblica Francese sia del Premio Europa per il Teatro come nuova realtà – risiede a Londra e proprio in sinergia con lo Young Vic londinese ha progettato e realizzato questo nuovo spettacolo: poetico ma inquietante racconto di un disastro ambientale che riguarda ormai tutti i continenti e che minaccia seriamente la sopravvivenza della razza umana. Il tessuto di partenza è imbastito sul filo di storie vere raccolte in Nord America, Africa, Brasile, Giappone e – ovviamente – Ucraina, laddove cioè si estende quella vasta area boschiva che, dopo l’incidente nucleare di Chernobyl, assorbì così tante radiazioni da diventare – appunto – rossa.
A fronte di una materia tanto vasta e diversificata, Khalezin (autore del testo e delle scene e regista) sceglie però la strada della semplicità: palcoscenico vuoto, due fiumi/mari di acqua ai lati e un’area centrale di terra rossa allusiva di tanti luoghi della Terra. Ad avvolgere questo Mondo così disumano e sofferente ci sono poi i musicisti che accompagnano l’intera pièce dal vivo, sovrapponendo le loro note alle azioni degli attori e agli intarsi video previsti da sfondo. Si procede lungo le traiettorie di una narrazione popolare, persino favolistica, a tratti forse troppo illustrativa, che si schiude via via quasi in sordina, senza urla, senza enfasi. Ai corpi, alle danze, alle coreografie corali dei pregevoli interpreti (tutti molto abili fisicamente, così come insegna la migliore tradizione teatrale russa) il compito di inseguire quell’impeto che le parole e la musica sembrano piuttosto voler diluire, soffocare, restituire in modo malinconico e sommesso.
La storia prende avvio in Canada e, parlandoci di popoli estinti, deprivati delle loro terre e della loro identità, ci introduce subito nel vero tema del lavoro: l’estinzione che stiamo rischiando a causa del continuo sfruttamento economico del Pianeta, delle guerre che ne derivano, dell’impiego irrazionale delle materie prime, del miope consumo di acqua e di energia. E’ attraverso la vicenda pietosissima di Aisha, una giovane donna della Liberia costretta a partorire da sola nel deserto del Sahara e a viaggiare con il suo bambino in braccio alla ricerca di un luogo sicuro dove vivere, che la denuncia sottesa allo spettacolo assume l’ariosità del simbolo e della metafora. Le avventure di Aisha attraversano il mondo e tutto il mondo soffre di tragedie simili. Dove? Dove le ruspe abbattono intere baraccopoli per fare spazio agli interessi delle grandi industrie e delle multinazionali. Dove gli smottamenti climatici scaricano litri inattesi di pioggia inondando case e villaggi. Dove il fracking impazzito rompe rocce e assicura terremoti e disastri a venire. Dove l’esplosione di una centrale nucleare diventa fegato e stomaco sputati dalla bocca (il racconto della morte del vigile del fuoco è uno dei passaggi più forti del testo). Eppure, malgrado tutto ciò, malgrado la violenza di cui è vittima, la donna ha sempre con sé il suo bambino/feticcio, il suo vessillo di speranza, il suo angelo da custodire. Ecco allora che Red Forest apre uno spiraglio di fiducia, una visione futura. Dobbiamo lottare oggi – sembra volerci dire la compagnia bielorussa – per garantire uno scampolo di vita serena ai nostri figli e ai figli dei nostri figli. Per questo dobbiamo farci sentire, dobbiamo scendere in piazza (grande successo ha avuto, ad esempio, il flashmob organizzato dal Belarus in un’importante strada di Roma mercoledì 22 ottobre e nel corso del quale è stato srotolato un panno rosso lungo 400 metri per tracciare una linea contro i sistemi pericolosi della produzione energetica), dobbiamo fare teatro, dobbiamo dare voce ai più deboli, ai diseredati della Terra. Sarebbe stata intenzione di Khalezin restituire qui l’idea di un grande affresco epico del dolore degli esseri umani. “Ma durante il processo di creazione della performance – scrive egli stesso – è nato un nuovo genere: anti-eroico. Analizzando centinaia e centinaia di storie di persone costrette a fuggire dalle loro case a causa dei cambiamenti climatici e delle guerre, ci siamo resi conto che i rifugiati non sono in grado di fare cose eroiche, come fanno gli eroi di un poema epico. Al contrario, possono solo reagire alla situazione in modo dinamico, per cercare di sopravvivere e continuare la loro corsa”. Forse però è proprio in questa loro capacità di resistenza e di reazione che essi si impongono come i nuovi eroi del terzo millennio. Probabilmente non funzionerebbero come protagonisti di un’epopea classica, ma come icone del nostro folle mondo suscitano in pari misura rabbia e compassione. Due sentimenti immensi. Da cui ripartire.