RITA CIRRINCIONE | Si è da poco conclusa la seconda edizione di Segesta Teatro Festival che dal 28 luglio al 27 agosto si è svolta all’interno del Parco Archeologico di Segesta, tra il Teatro Antico e il Tempio di Afrodite Urania, ancora sotto la direzione artistica di Claudio Collovà.
Nel solco della edizione precedente, il festival ha dato voce ai diversi linguaggi espressivi tra musica, teatro e danza, spesso in dialogo tra loro. Oltre 250 gli artisti ospitati: Jan Fabre con Sonia Bergamasco e Ruggero Cappuccio, Stefano Bollani, Alice, Gabriele Vacis, Ginevra Di Marco e Gaia Nanni, Giuseppe Pambieri, Lino Patruno, Giovanni Sollima, Enzo Cosimi, Michela Lucenti e Balletto Civile, Elena Bucci, Cinzia Maccagnano, Francesco Giunta, Roberta Ferrara e Equilibrio Dinamico Dance Company, Sofia Nappi/Komoco, per citarne alcuni.
Molti gli spettacoli da non perdere, pochi ma ben rappresentativi di questa edizione del festival quelli che siamo riusciti a vedere.
Seppur a conoscenza del devastante incendio che ha interessato il Parco di Segesta e che ha distrutto la vegetazione mediterranea che circonda il Teatro e il Tempio mettendo a rischio l’inizio del festival, arrivando al tramonto di un’afosa giornata di agosto e percorrendo i candidi blocchi di pietra calcarea del sentiero che conduce al teatro, la vista della distesa nera di cenere costellata di mozziconi bruciati di palme nane che ricopre l’intera area archeologica lascia ugualmente un senso di desolazione che accompagna per tutta la durata dello spettacolo. Ad aumentare la percezione di profanazione della bellezza e della sacralità del luogo, le parole di Claudio Collovà nell’introduzione del programma che, lette ex post, suonano involontariamente beffarde.
«Si rinnova il rito collettivo che ci richiama alla sospensione della realtà esterna e invita a farci viaggiatori di esperienze e di emozioni più vive, al contatto con il divino che a Segesta si respira in ogni pietra. Il nostro primo intento è vivere il tempo fuori dall’ordinario, perdere di vista la realtà esterna lasciandola fuori dal tempio. Una consuetudine che nella bellezza del nostro teatro non può che fare bene all’anima. Lasciamo che il teatro intervenga con spirito libero sulla realtà che stiamo vivendo, che unisca i popoli come sempre ha fatto, e che ci faccia ritrovare insieme ben disposti all’ignoto e all’avventura».
Dodi di Sofia Nappi, danzatrice e coreografa con formazione all’Alvin Ailey American Dance Theater e con la Hofesh Shecter Dance Company e la Batsheva Dance Company, è un coreografia prodotta da Sosta Palmizi – Komoco.
In una scena nuda, sullo sfondo della vallata che degrada verso il mare, su un tappeto danza bianco che delimita in modo netto lo spazio scenico, i due danzatori – Adriano Popolo Rubbio e Paolo Piancastelli – entrano subito nel vivo di un serrato dialogo motorio segnato da una costante tensione relazionale.
Per l’intera durata della breve performance, andando oltre il chiuso di una dimensione individuale che sembra rimanere come un implicito flashback, la coppia mette in scena una gamma di sequenze coreografiche nelle quali sperimenta diverse sfaccettature di una relazione, una sorta di bromance fatta di intimità e fiducia, di ascolto e sensualità, in una ricerca di senso “a due” che alla fine sembra condurli a una nuova identità, come un dono a cui il titolo, tradotto dall’ebraico, fa riferimento.
In successione, IMA – termine giapponese per indicare il momento presente, corrispondente al greco kairos – un progetto coreografico per cinque danzatori ideato e diretto da Sofia Nappi per la Compagnia Komoco e prodotto da Sosta Palmizi. Lo spettacolo, che ha debuttato in una prima versione alla Biennale Danza di Venezia del 2020, è nato durante la pandemia, periodo durante il quale l’isolamento forzato, ha alimentato un senso di precarietà e di paura, una condizione di stasi e di apatia. IMA è la risposta a questo stop forzato, un invito a vivere pienamente il presente e a riscoprire il corpo.
Nella prima parte dello spettacolo i cinque performer con addosso vestiti e maschere da vecchi entrano in scena curvi e con movenze lente e impacciate, trascinando un baule da cui estraggono una serie di strumenti musicali giocattolo con i quali mettono su un’orchestrina. Al suono di una musica retrò, cominciano goffamente a ballare in un’atmosfera d’altri tempi vagamente espressionista. Poi la musica cambia: a poco a poco inizia un liberatorio risveglio alla vita, un processo di svecchiamento e di ritorno al contemporaneo. Abbandonato l’ingombrante abbigliamento, tolte maschere e parrucche, i corpi dei cinque danzatori, ricoperti adesso di abiti morbidi e leggeri, incominciano ad allungarsi e a muoversi sinuosi. È uno spogliarsi, un alleggerirsi, un riscoprire la gioia vitale del movimento fisico e interiore, il piacere della connessione dinamica con gli altri corpi, la pienezza di sentirsi un corpo collettivo vivo e vibrante. Il baule con il vecchio armamentario in fondo alla scena ormai è solo un totem del passato.
In una felice commistione di linguaggi, tra poesia e musica, e di generi musicali, sullo sfondo impareggiabile del Tempio di Afrodite Urania, The Waste Land and Other Poems, mette in scena una combinazione di artisti – Ubi Ensemble (Giuseppe Rizzo, live electronics, Ornella Cerniglia, pianoforte) e La Banda di Palermo (Giacco Pojero, fisarmonica e voce, Nino Vetri, sax e voce, Marco Monterosso, chitarra, Antonella Romana, tromba, Simone Sfameli, batteria, Luca La Russa, basso) con la voce di Claudio Collovà a far da filo conduttore con le parole del poema di T. S. Eliot che dà il titolo allo spettacolo e di altre poesie dello stesso autore.
Tra un Notturno di Chopin eseguito da Ornella Cerniglia, un brano della Waste Band tra quelli composti da Giacco Pojero e Nino Vetri sui versi del poeta anglo-americano, le composizioni live electronics di Giuseppe Rizzo a far da paesaggio sonoro, Claudio Collovà dà voce a un repertorio di dialoghi, immagini e figure che compongono l’universo eliotiano, in una mescolanza di lingue, di riferimenti letterari e mitologici, al quale lo spettatore, al pari di un’opera musicale, è portato ad accostarsi con una modalità di ascolto basata sulla suggestione e sul processo evocativo piuttosto che analitico o cognitivo. A quasi un secolo dalla sua pubblicazione, l’opera di Eliot, già incredibilmente profetica e attuale, nella rilettura e nell’indovinata messa in scena di Collovà lo è ancor di più, come l’invocazione alla pace – Shantih! Shantih! Shantih! – che conclude il poema e lo spettacolo.
Al Teatro Antico, la penultima serata del festival, va in scena in prima regionale Resurrexit Cassandra su testo di Ruggero Cappuccio, ideazione, regia e scenografia di Jan Fabre, una rielaborazione contemporanea della figura mitologica di Cassandra nell’interpretazione di Sonia Bergamasco.
Dopo un incipit classico in cui vengono ripercorse le vicende della sacerdotessa del tempio di Apollo condannata dal dio da lei rifiutato a conoscere il futuro, a predirlo e a essere perennemente inascoltata, lo spettacolo vira verso l’attualizzazione, verso temi che hanno a che fare con la modernità, come il disastro ambientale e il cambiamento climatico, o antichi quanto il mondo come la guerra, le migrazioni, le differenze di genere, ma declinati secondo la sensibilità contemporanea.
Cassandra rinasce, torna a vivere e a presagire ancora il destino tragico verso cui l’umanità sembra andare incontro in uno stremante ritorno sempre uguale a se stesso. Ma l’uomo di oggi, come quello dei tempi di Omero, nonostante il progresso tecnologico, l’accesso alle informazioni, le evidenze della ricerca sulle conseguenze dei propri comportamenti, continua a non voler vedere, a non voler cambiare, in una cecità consustanziale alla natura umana, in un’attitudine all’autoinganno quasi ontologica, che fa il paio con la condanna di Cassandra (di tutte le Cassandre odierne) a essere ancora e sempre una sterile profetessa di sventure, come sterile sembra la sua idea utopica e paradossale di salvare l’umanità e potere finalmente scomparire per sempre.
Ecco Cassandra-Bergamasco fare il suo ingresso con un ampio vestito nero, incedendo solenne e statuaria come un’Addolorata tra una serie di serpenti lignei, dei cobra semieretti di varia forma e grandezza, disposti sulla scena al centro della quale si ferma come un’installazione vivente. La sua bocca spalancata è un buco nero che parla attraverso la voce maschile – quella dello stesso Ruggero Cappuccio – e che ripercorre la ricomposizione del suo corpo smembrato, con i suoi organi disseminati nei luoghi più disparati del pianeta.
Suddiviso in cinque movimenti, ogni passaggio è scandito da un ticchettio di orologio e da un cambio d’abito. Cinque sono i vestiti di cinque colori diversi che l’attrice indossa sovrapposti uno sull’altro e che cambia in scena sfilandoli uno dopo l’altro con gesti lenti e teatrali in una metamorfosi che richiama la muta dei serpenti che la circondano.
Dopo il prologo, con la sua voce – una voce in un primo tempo masticata e come impastata dalla terra che ancora le riempie la bocca – inizia il lunghissimo monologo intessuto con le musiche originali di Stef Kamil Carlens e gli effetti sonori di Christian Monheim e con un interventi musicali della stessa Bergamasco che interpreta alcuni brani dei Beatles – Strawberry Fields, Here Comes the Sun, Revolution, Blackbird –, brani che lei smonta e rimonta cantandoli in modo recitato o recitandoli per poi scivolare nel canto. Ma la sua musicalità si manifesta anche nel ritmo e nella padronanza vocale con cui interpreta le drammatiche sfumature di un testo potente, visionario, poetico, con venature pulp, un testo che nella parte finale diventa eccessivamente ridondante (e forse volutamente martellante) a cui lei, insieme a una intensa e mai vacillante presenza scenica, tiene magistralmente testa fino alla fine.
SEGESTA TEATRO FESTIVAL
28 Luglio – 27 Agosto 2023
DODI
di Sofia Nappi
danzatori Adriano Popolo Rubbio e Paolo Piancastelli
costumi Sofia Nappi
disegno luci Alessandro Caso
produzione Sosta Palmizi con KOMOCO/Sofia Nappi
IMA
danzatori Arthur Bouilliol, Leonardo de Santis, Glenda Gheller, India Guanzini, Paolo Piancastelli
assistente alla coreografia Adriano Popolo Rubbio
luci Alessandro Caso
costume designer Luigi Formicola in collaborazione con Manifatture Digitali Cinema Prato di Fondazione Sistema Toscana
produzione Sosta Palmizi, Komoco/Sofia Nappi
coproduzione La Biennale di Venezia, COLOURS – International Dance Festival, Centro Coreográfico Canal
THE WASTE LAND AND OTHER POEMS
Ciò che vide Tiresia
dall’opera T.S. Eliot
voce Claudio Collovà
Ubi Ensemble
live electronics Giuseppe Rizzo
pianoforte Ornella Cerniglia
La Banda di Palermo
fisarmonica e voce Giacco Pojero
sax e voce Nino Vetri
chitarra Marco Monterosso
tromba Antonella Romana
batteria Simone Sfameli
basso Luca La Russa
produzione Le Baccanti in collaborazione con La Banda di Palermo e Ubi Ensemble
RESURREXIT CASSANDRA
di RUGGERO CAPPUCCIO
ideazione, regia, scenografia, video Jan Fabre
testo Ruggero Cappuccio
con Sonia Bergamasco
voce al prologo Ruggero Cappuccio
musiche originali Stef Kamil Carlens
effetti sonori Christian Monheim
disegno luci Wout Janssens
costumi Nika Campisi
assistente alla regia e drammaturgia Miet Martens
direzione tecnica Marciano Rizzo
fonica Marcello Abucci
direzione di produzione Gaia Silvestrini
costumi realizzati da Officina Farani
foto Hanna Auer, Marco Ghidelli
produzione Teatro di Napoli – Teatro Nazionale, Fondazione Campania dei Festival, Campania Teatro Festival, Troubleyn/Jan Fabre, TPE Fondazione Teatro Piemonte Europa, Carnezzeria srls