GIULIA BONGHI | Punti di vista. Rispecchiano la scelta dello spettatore. A teatro, come al cinema, e di fronte alle opere d’arte, assumiamo un punto di vista, scegliamo cosa guardare. Spesso lo sguardo è governato dall’artista stesso: all’interno di un dipinto c’è una linea che seguiamo, un certo equilibrio dell’immagine che accompagna il rapido esame delle nostre retine. In ME TIME – Una stanza tutta per sé, è la coreografa e danzatrice Camilla Monga che guida gli astanti all’interno delle stanze del secondo piano di Palazzo Maffei Casa Museo di Verona. Con la sua magnifica facciata barocca che si sporge su Piazza delle Erbe, l’edificio ospita la Collezione Carlon. Si tratta di una raccolta eclettica di sculture, dipinti, incisioni, miniature, libri, bronzi, avori, mobilio e manufatti decorativi, dall’antichità ai giorni nostri, con particolare interesse per la storia artistica veronese.
Lo spettatore è immerso nei paesaggi sonori di Federica Furlani tramite il sistema Silent Play: apposite cuffie che trasformano la visita al museo in un viaggio armonico in dialogo con i pezzi della collezione e le azioni coreografiche.
Il percorso ha inizio nell’Antiquarium, dove ci troviamo subito davanti a un busto di Marco Aurelio. Assieme a frammenti di fregi architettonici e manufatti lapidei, documenta la storia antica di Verona; lo stesso Palazzo Maffei è stato edificato sui resti del Capitolium, tempio votivo sorto nel I secolo d.C. Storia evocata non solo dai reperti d’arte scultorea romana, ma anche dai Gladiatori di Giorgio de Chirico, interpretazione ironica del mito di Roma. Alle spalle dell’imperatore filosofo vi è attonito l’uomo contemporaneo: il Testimone di Mimmo Paladino. Dal profilo arcaico e atemporale, lo sguardo privo di soggettività, l’enigmatica fissità dei gesti, è in dialogo straordinariamente espressivo con i resti romani e con la danzatrice, che procede nella seconda stanza.
Palazzo Maffei è uno dei bellissimi palazzi nobiliari che accoglievano i viaggiatori del Grand Tour che sostavano a Verona. Gran parte delle sale di rappresentanza del palazzo presentano affreschi che abbelliscono pareti e soffitti, inquadrati da cornici di stucco. Camilla Monga osserva quelle antiche vedute, sbirciando attraverso angolazioni inusuali, movimentando anche lo sguardo dello spettatore. In questa stanza la “bella natura” è celebrata da un Amorino di Antonio Canova, che risponde all’afflato romantico goethiano espresso dall’installazione site-specific Over Nature di Chiara Dynys. Due aforismi sulla natura sono trascritti su grate dorate di acciaio trafilato, poste davanti alle pitture della sala. Uno cita un passo del grande interprete del romanticismo Johann Wolfgang von Goethe: «Dalla natura, da qualunque parte la si guardi, nasce l’infinito». L’altra frase è dell’artista stessa: «Per comprendere che il cielo è azzurro ovunque non c’è bisogno di fare il giro del mondo». Sono come finestre aperte sul paesaggio, partecipe di quella tensione romantica all’infinito che leggiamo nelle parole di Goethe.
Si prosegue nella terza sala, che custodisce diverse vedute di Verona, e nella quarta che, di contro, presenta delle pareti di cornici vuote. Monga apre la strada per la stanza Sul sapere universale e la caducità delle cose, tra un volume dell’Encyclopédie di Diderot e d’Alembert, nature morte e una natura-paesaggio di Mario Schifano. Continua il suo racconto danzato tra il mobilio settecentesco della stanza Intermezzo d’autore, mentre spiccano i lavori del pittore veronese Pietro Rotari accanto a un capolavoro di Gino De Dominicis, artista del XX secolo.
Nella settima sala emerge la questione sullo spazio e sulla materia, al centro del dibattito artistico degli anni Cinquanta e Sessanta. La danzatrice si inoltra all’interno di un vano che custodisce l’olio su tela Caduta di San Paolo di Giovanni da Monte, allievo di Tiziano a Venezia, c. 1500 – c. 1580. Scompare e riappare oscillando sotto l’arco, davanti a Paolo disarcionato e riverso a terra con una gamba appoggiata sopra la groppa del cavallo. Seguendo i continui cambiamenti di sonorità, prosegue dialogando con l’opera di Fausto Melotti, Contrappunto semplice, al centro della stanza. Fili d’acciaio inox evocano uno spartito musicale, astratto e tridimensionale. Imita quell’eleganza finissima, anch’essa leggera e come priva dell’influenza della gravità. Lo spettatore continua a seguire con lo sguardo le conformazioni geometriche della performer, sempre diverse a seconda della posizione di chi guarda, del punto di vista che si sceglie di assumere.
Davanti a Concetto spaziale. Attesa di Lucio Fontana, Monga sospende il passo e il respiro. Una pausa temporale rappresentata dal taglio. Un gesto semplice, le mani che si aprono all’altezza dello stomaco, spalanca una voragine all’interno del suo corpo per raccontare qualcosa che lo trascende; un’idea, un pensiero, una forma. Così come il taglio che dilania la superficie, mostrando lo spazio che sta oltre il telaio, trasforma la materia in significato, anche la gestualità della danzatrice rinforza questo concetto: lo spazio assume un corpo. Testimoni alle pareti sono anche Pietro Manzoni, che riduce la tela a una tabula rasa intitolata Achrome, Alberto Burri, Enrico Castellani, Gastone Novelli e la gestualità segnica di Carla Accardi.
Nell’ottava sala, Sullo spazio e i suoi satelliti, Eliseo Mattiacci apre il varco allo spazio cosmico, inesplorato e infinito, verso nuovi mondi. L’opera Tempo globale evoca l’entità incommensurabile dell’universo.
Si avvicina il termine del percorso indugiando nella Project room, attorno al Lotus Maffei di Daan Roosegaarde, un fiore metallico che si dischiude e sollecita l’inclusione e la partecipazione comunitaria. Gli astanti accerchiano l’opera, osservando i delicati gesti della loro poetica guida, attorno a quel fiore del futuro, simbolo del cambiamento della natura e di uno sguardo consapevole al ruolo della scienza e della tecnologia.
Questa raffinata relazione comunicativa tra spazio, forma e gestualità, ma anche suono e tempo, si conclude di fronte a una parete di citazioni. Fra tutte risalta una frase del pittore tedesco Gerhard Richter: «L’arte è la forma più alta della speranza». Viene sussurrata anche nelle cuffie tra quei suoni unici che hanno fornito la base drammaturgica per una perlustrazione del tempo attraverso le sale della Casa Museo. Un viaggio che è occasione per interrogarsi sull’identità dell’uomo, legato al tempo e alla natura. Viaggio che ha inizio da delle domande: Dove sei? Dove andrai? Dove vuoi andare?
ME TIME – UNA STANZA TUTTA PER SÉ
liberamente ispirato a Una stanza tutta per sé di Virginia Woolf
prodotto dal Teatro Stabile di Verona
coreografa e danzatrice Camilla Monga
paesaggi sonori Federica Furlani
Verona, Palazzo Maffei Casa Museo
14-15, 21-22, 28-29, ottobre
4-5, 11-12 novembre
Ore 11.00