NICOLA ARRIGONI – Danio Manfredini è teatro, è corpo e anima scenica, non è solo un attore, è egli stesso teatro e poesia incarnata.
Danio Manfredini ha scritto nel volto, nel corpo le parole che recita, le storie che racconta, il coro che lo segue, lo applaude, condivide con lui una disperata vitalità.
Danio Manfredini è l’attesa che il miracolo della rosa di compia, è la speranza mai morta che in quella crocifissione triplicata ci possa essere una qualche redenzione, è il cielo che si squarcia in un cinema di periferia, è il vivere presente e intensamente, senza rete di protezione, è semplicemente Danio Manfredini.
Per questo si va a vedere uno spettacolo di Manfredini come ci si accosta alla messa, con la voglia di sentirci riproporre il miracolo di una resurrezione laica, con la fiducia che in quella sera, in quel racconto Manfredini regalerà l’epifania massima del suo essere teatro che vive e pulsa e forse ci svelerà il perché continuiamo a credere in lui, nel suo offrirsi sera dopo sera al nostro sguardo di spettatori. E’ questo sentimento di fedeltà teatrale, di affetto all’artista e all’attore che si respira fra il pubblico – di addetti ai lavori ma non solo – che risponde alla con-vocazione di Manfredini, perché non si può non andare a vedere uno spettacolo di Danio, come tutti lo chiamano con una familiarità forse eccessiva, ma certo protettiva e sincera.
E allora un po’ impudicamente, sempre più spesso ma sempre con un peso di sincerità commovente Danio Manfredini dice di sé, delle sue difficoltà, dell’enigma del teatro e lo fa con la voglia di mettersi alla prova, non per mettere un punto o una definizione al suo essere artista e attore, ma per poter continuare la sua ricerca che altro non è che il tentativo di rendere accettabile la vita con la finzione del teatro. Per questi motivi, per queste emozioni è difficile dire che uno spettacolo di Danio non sia riuscito, anche se magari non lo è riuscito, perché in nuce, nascosto – più sperato che reale – c’è la convinzione che malgrado tutto la prossima volta sappiamo che la nuova convocazione lanciata da Danio Manfredini sarà accolta con la speranza di sempre, con la fiducia incrollabile in quella figura dinoccolata che dice del buio dell’anima dell’umanità.
Così in Vocazione – inevitabilmente e costantemente – Danio Manfredini mette a nudo se stesso, si interroga sulla poesia del teatro, racconta dell’umanità derelitta a cui appartiene e di cui si nutre il suo teatro. In Vocazione Manfredini inanella una serie di citazioni drammaturgiche da Lear di Shakespeare al Gabbiano di Cechov, da Servitore di scena di Ronald Harwood a Minetti. Ritratto di un artista da vecchio di Thomas Bernhard, all’Amleto di William Shakespeare. Su questo centone drammaturgico Danio Manfredini, affiancato da Vincenzo Del Prete, costruisce una serie di azioni fisiche di dolente malinconia, di angosciosa fame di vita e solitaria disperazione; pezzi che appartengono al suo repertorio ma appaiono nuovi, incontri ripetuti e già visti che non mancano di commuovere e stupire, malgrado tutto, malgrado ciò a cui si assiste non corrisponda alla semantica di un teatro compiuto e riuscito.
L’utilizzo della maschera in lattice che annulla l’espressività mimica del volto dell’attore contribuisce a svuotare d’umanità e ad accrescere di disperata vitalità l’agire in scena di Manfredini che non si vergogna nel chiedere perché si fa teatro, cosa spinge un attore ad andare in scena sera dopo sera; un interrogativo la cui risposta è affidata allo spettatore. Si assiste a Vocazione con l’attesa di quello che il peso specifico dell’humanitas di Manfredini potrebbe dare, forse tutte le attese non sono soddisfatte, anzi si esce con un senso di incompiuto, con la consapevolezza che quel discorso sulla ‘vocazione’ è parola segreta, intima, è incertezza d’artista, disorientamento creativo, mancanza di senso, urlo di disperata sopravvivenza. C’è il suggerimento di una parabola discendente, di una fatica dell’esistere e non solo in scena che Manfredini consegna al suo pubblico. Questo è il dato: l’attore e performer Manfredini vive di una sua sacralità, è feticcio coccolato, è creaturina fragile amata dallo sguardo dei suoi spettatori che tutte le volte convengono nella speranza di un’illuminazione. Che questo sia il segreto del teatro di Danio Manfredini, un miracolo sempre postposto ad ogni spettacolo perché la forza dei miracoli sta nel credere che possano accadere, magari nella bassa emiliana, a Rubiera e alla Corte Ospitale dove Manfredini ha trovato casa. In questa condizione gli spettatori si fanno pellegrini che cercano ristoro alla Corte ospitale sulla via del teatro, per un viaggio laico nel cuore dell’uomo con guida sfuggente e poetica Danio Manfredini, artista di miracolosa umanità.
Vocazione, ideazione e regia di Danio Manfredini, con Danio Manfredini e Vincenzo Del Prete, assistente alla regia Vincenzo Del Prete, progetto musicale Danio Manfredini, Cristina Pavarotti e Massimo Neri, disegno luci Lucia Manghi, Luigi Biondi, collaborazione ai video Stefano Muti, produzione La Corte Ospitale, coproduttori Sotto Controllo, Elsinor Teatro Stabile di Innovazione, Varsiliadanza, Collettivo di ricerca teatrale Vittorio Veneto, visto al Teatro Herberia di Rubiera, il 10 ottobre 2014.
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