RENZO FRANCABANDERA | Il teatro ha alcune regole ben precise; e sono nell’arte stessa, almeno nella sua declinazione più ordinaria, in cui il rapporto cruciale si ha fra spettatori e attore, per il tramite di un testo. Si vabbè, la performance, tutto quello che si vuole.
Il primo teorema della sincerità teatrale dice che se hai un testo che funziona, un attore capace di porgerlo con coraggio e intensità e un regista con un’idea forte su come far dialogare testo e attore, si crea un elemento magico che si approssima al poetico quanto più il pubblico diventa partecipe dell’emozione collettiva.
È quanto succede con Letizia Forever, testo e regia di Rosario Palazzolo, che si affida per la protagonista della sua storia alla carnalità femminile e vera di un potentissimo Salvatore Nocera; la storia di una sottoproletaria analfabeta siciliana che spera di fuggire, diciassettenne, ad un destino di infelicità, con la classica “fuiùta”. Con il ragazzo, che poi sposerà già incinta, fuggono a Milano. Lui diventa autista ATM. Lei sforna due figli, vivendo in un casermone all’Ortica. In serbo un destino di infelicità che resta in agguato fino al finale che lo rivela.
La macchina testuale, costruita con cadenze e intervalli, si affida ad una corrispondenza scenica che ovviamente l’autore ha già di suo calibrato nella scrittura, fra pause e diritto e rovescio del tessuto testuale, utilizzando nella messa in scena una colonna sonora di classici pop degli anni Ottanta che, come l’euforia di quegli anni, narcotizzavano un’Italia che sperava di cambiare molto più di quanto poi non sia cambiata veramente.
E così la confessione di Letizia ha una parte sociale e una intima e personale, l’una affidata a una luce fissa e chiara, l’altra a una rossa con la musica pop e lo stroboscopio (disegno luci di Toni Troia). La vita scorre fra le due modalità narrative, e una serie di voci off, di Giada Biondo, Floriana Cane, Chiara Italiano, Rosario Palazzolo, Chiara Pulizzotto, Giorgio Salamone.
La scena di Luca Mannino è semplice e valorizza il rapporto diretto fra spettatori e interprete, con i primi che circondano e sono vicinissimi al secondo. Meno incisivi e forse inutili alcuni elementi appesi al soffitto e che nel rapporto di attenzione che si crea fra pubblico e interprete, di fatto spariscono e non si fanno vettori di un messaggio ulteriore.
Pur riportando alla memoria, come inevitabile, la presenza scenica di La Ruina e i suoi testi sulle donne meridionali affidate nell’interpretazione ad un uomo, lo spettacolo sa trovare una sua vena peculiare, ironica, più vicina, rimanendo in vena di paragoni, seppur con le dovute semplificazioni della trama, a un Mimì metallurgico al femminile, dove codice d’onore, radici proletarie e desiderio di emancipazione dalla miseria si intrecciano in modo grottesco e satirico, fino all’inevitabile sconfitta dell’antieroe. Per il quale nel frattempo abbiamo preso a tifare.
In scena al Teatro della Contraddizione di Milano, e prodotto da T22 e Teatrino Controverso, Letizia Forever è un piccolo gioiello di autoproduzione, uno di quegli spettacoli che funzionano a qualsiasi latitudine perché capaci di risvegliare sentimenti e partecipazione sincera.
Poi si potrebbe discutere su alcune perfettibilità della drammaturgia, che magari lascia qui e lì nella seconda parte, quella per così dire metropolitana, alcuni passaggi non del tutto risolti e svolti un po’ velocemente, allungandosi invece su alcune cadenze forse meno pungenti e ricche, ma il complessivo funziona in modo egregio ed è il classico spettacolo che se avessi un teatrino e la voglia di far emozionare il pubblico semplicemente con un testo, un attore e un’idea registica, programmerei certamente.
Fra le dieci migliori produzioni indipendenti viste nella stagione.