RENZO FRANCABANDERA | I recenti studi nazionali e internazionali sui luoghi e le pratiche che hanno regolato il rapporto tra disabilità e arti performative evidenziano come la presenza di artisti con disabilità nella scena e anche nel cinema non sia ancora un dato acquisito e paritetico. Il caso della persona con disabilità appare peculiare, poiché portatore di una precisa istanza che passa per le specificità del suo corpo. Ma anche negli organismi di rappresentanza e di direzione, i grandi report internazionali registrano come non solo in Italia, ma in gran parte d’Europa, la presenza di performer e figure con disabilità sia ancora marginale e poco sostenuta.
Il fenomeno di recente ha assunto differenti forme che hanno interessato sia il costrutto di disabilità, sia la percezione e l’ideologia di cui quel corpo considerato “diverso” si fa interprete, per il tramite dell’arte. Ne dialoghiamo, con l’auspicio è di gettare le fondamenta per una riflessione critica, con Flavia Dalila D’Amico, studiosa e curatrice. I suoi interessi di ricerca si rivolgono alle intersezioni tra corpi, soggettività politiche e tecnologie nell’ambito delle arti performative. Nel 2022 ha pubblicato il volume Lost in Translation. Le disabilità in scena (Bulzoni Editore) che indaga la relazione tra le disabilità e il teatro. Fa parte dell’associazione Al.Di.Qua. Artists e cura la comunicazione di ORBITA | Spellbound Centro Nazionale di Produzione della Danza.
Dalila, prendiamo come punto di partenza le tue riflessioni degli ultimi anni sul rapporto fra scena e disabilità. Innanzitutto, come è nato questo specifico interesse per questo campo di indagine?
L’interesse per i rapporti tra arti performative e disabilità è nato anni fa per una questione di natura personale ed è maturato nel tempo grazie a una ricerca dottorale che mi ha consentito di incontrare e riflettere con artisti e artiste con disabilità. Rapporti che nel 2020 hanno dato vita in maniera luminosa all’associazione Al.Di.Qua. Artists, spinta principale per la scrittura di un libro che altrimenti avrei lasciato nelle memorie di un hardisk. Sottolineo l’incontro con un’esperienza disabilitante nella mia vita personale, o meglio quella di un amico, perché ci dà una misura di quanto invisibilizzate siano nella nostra società le disabilità: bisogna attraversarle per vederle. Se avviene, questo incontro ci offre la possibilità di adottare nuove lenti di lettura della società e scoprirne le crepe incrostate dell’inaccessibilità.
Viviamo in un mondo costruito su misura di corpi inesistenti, prestanti, veloci, scattanti, e quello teatrale non è da meno. La progettazione di uno spazio, un evento, uno spettacolo, è il primo sintomo del sistema di pensiero entro cui è edificata, spesso escludente ed esclusivo, perciò ingiusto. Occupandomi di arti performative e non di urbanistica o architettura, ho cercato di far luce sulle crepe di quel sistema, con il desiderio che un giorno si potessero rimarginare.
Che realtà hai potuto fotografare in queste ricerche?
Le ricerche affondano nelle radici storiche di ciò che oggi definiamo “cultura abilista”, ovvero l’Ottocento, periodo di massima fioritura dei Freakshow, ma anche dell’impianto scientifico legato ai saperi sui corpi. In questo contesto la fotografia diviene lo strumento per eccellenza per lo studio della non conformità fisica, mentale, sensoriale o culturale, banco di prova per i postulati delle fiorenti discipline e, infine, mezzo di “addomesticamento” dello sguardo collettivo.
La storia dei freak show è strettamente legata a quelle delle etno-esposizioni, ossia esibizioni di persone non occidentali. Alle istanze colonialiste dell’Occidente si sovrapposero quelle scientifiche, mosse dall’urgenza di comprendere, spiegare e ordinare gerarchicamente cose e persone. Tali gerarchie arrivano fino ad oggi e sono il motivo per cui i nostri palchi non sono progettati per essere attraversati da persone con disabilità, un artista come Ghali a Sanremo non possa dire “Stop al Genocidio” e nei giornali non si parli di Palestina.
Dall’Ottocento a oggi si è andato sistematizzando un dicibile, un visibile e un esperibile, a favore di poche persone e a scapito di molte. Di questa gerarchia il sistema delle arti performative si è nutrito, ne sono testimoni le rappresentanze tra le platee e sui palchi. Il Freakshow costruiva una narrazione attorno al corpo non conforme come eccezione spettacolare in un continuum ordinario.
Questo è quello che purtroppo accade ancora oggi quando una stagione presenta un solo spettacolo con artisti con disabilità, o quando i titoli di giornale recitano: «Nonostante la propria disabilità, X ha vinto le paraolimpiadi o un premio». Di contro però, per quanto aberrante fosse il dispositivo del Freakshow, in un’epoca priva di sistemi pensionistici consentiva all’artista con disabilità autonomia economica, possiamo dire lo stesso, oggi, per gli artisti e le artiste con disabilità?
Come è evoluto il panorama negli ultimi 10 anni secondo te? Che progressi ci sono stati?
Probabilmente sono influenzata dal periodo buio che stiamo vivendo, ma non riesco a vedere la progressione cronologica direttamente proporzionale alla progressione in senso ampio. Forse, grazie a Internet gli attivismi si sono potuti intrecciare su larga scala, facendo emergere soggettività politiche fino a qualche anno fa silenziate e parcellizzate. Fare politica non è immediato per una persona con disabilità e non perché non ne senta l’urgenza o perché, come spesso si crede, abbia una vita problematica che assorbe ogni energia, ma perché le stesse regole che alimentano la società ricadono su quelle assembleari e di movimento. Spesso le pratiche politiche sono inaccessibili tanto quanto gli spazi. Internet ha concesso una presa di parola maggiore e la possibilità che costellazioni di pensiero molto lontane tra loro potessero unirsi in coro e cortocircuitare le credenze in vigore.
Per quel che riguarda il nostro campo specifico, dal 2020 la nascita di Al.Di.Qua Artists ha concesso a istituzioni, operatori e operatrici culturali un diretto confronto con artisti e artiste con disabilità e la circolazione di saperi incorporati. La presa di parola di chi fa un’esperienza disabilitante ha ribaltato, o sta tentando di ribaltare, le logiche e i tempi con cui, fino a oggi, sono state scansionate le modalità del fare cultura. Almeno in apparenza, il sistema delle arti sta diventando più ricettivo alle questioni relative all’accessibilità e alla rappresentanza, sui palchi e tra le platee, della comunità disabile.
La stessa cosa sta avvenendo nei processi drammaturgici, elaborati da artisti e artiste che decidono quale immagine veicolare del proprio corpo e delle disabilità, complicando sguardi e prospettive di lettura dello spettacolo e della società.
Ci sono sempre più esperienze e laboratori condotti da artisti con disabilità nei contesti più svariati. Che specificità socio pedagogiche ritieni che emergano in questi contesti? Hai preso parte qualche volta ad alcuni di questi?
Ho avuto la fortuna di assistere al workshop Sotto il sole del bosco, condotto da Chiara Bersani e rivolto a persone con disabilità. L’elemento centrale di questo laboratorio non è tanto il trasferimento di competenze da un corpo specifico ad altri corpi, ma al contrario, la cura, unita a una metodologia scientifica, nella ricerca delle possibilità espressive del singolo corpo. Il workshop inverte le prassi pedagogiche fino a oggi a me conosciute e disarticola la gerarchia insegnante-discente, per fare in modo che siano le qualità di ciascun corpo ad arricchire la scrittura dei saperi collettivi sul movimento.
Il fatto che Chiara Bersani sia un’artista con disabilità non semplifica il suo lavoro di “archeologia” di un linguaggio fisico specifico per ciascun corpo, proprio per l’unicità e irripetibilità di quest’ultimo. Tuttavia, è a partire dai propri saperi incarnati che l’artista ricava una metodologia rigorosa radicata sulle esigenze della singola persona, anziché su quelle della maggioranza. La disabilità divienta strumento di scrittura per sostituire le logiche dell’uniformità e della conformità di una classe a quelle meno percorse dell’imprevedibilità, della lentezza, della potenza di una singolarità.
Le alternative che abbiamo davanti, nel tentativo di restituire visibilità a chi opera in questo ambito e alle creazioni specifiche, possono essere, forse, principalmente due: festival di carattere nazionale dedicati, o il lento lavorare all’evoluzione sociale, incoraggiando le best practice, ma con il rischio anche di passi indietro, rallentamenti. Tu quale strada preferisci? Ne vedi altre?
A mio avviso, il passo da compiere non è quello di “offrire” visibilità, ma di consentire percorsi professionalizzanti che possano favorire l’accesso al lavoro nel campo delle arti performative dalla porta di ingresso ufficiale, senza passare per i “corridoi” stretti dei festival e dei laboratori appositamente dedicati.
Mi piace leggere l’accessibilità attraverso la lente dell’Universal Design, ovvero una metodologia di progettazione volta a fornire al più alto numero di utenti possibili accesso “a una medesima esperienza in maniera equivalente”. Un approccio culturale che tiene conto, a monte, della complessità cui si rivolge un progetto, piuttosto che agire ex post per adattare un ambiente inaccessibile alle necessità di un singolo individuo.
L’accessibilità è una scelta politica, una finestra tra “un soggetto” e “qualcosa” cui accedere. Quanto più numerosi saranno i soggetti da prendere in considerazione, tanto più ampia dovrà essere tale finestra.
La prima da spalancare è quella dell’alta formazione, per consentire alle persone con disabilità un’equa partecipazione ai progetti artistici, non sulla base delle proprie qualità fisiche, ma su quella delle competenze. Di pari passo serve un ripensamento della società, volto a favorire autonomia a una persona con disabilità negli ambienti e nei contesti lavorativi. Infine, la finestra da far saltare è quella degli immaginari. Fino a quando le scritture cinematografiche, teatrali, televisive ecc. ancoreranno l’attrice con disabilità al personaggio con disabilità, spesso marginale o pietistico, saranno poche le possibilità lavorative effettivamente valutabili per consentire una sussistenza economica autonoma. Se a questo aggiungiamo che spesso anche i ruoli di persone con disabilità vengono affidati a interpreti che non fanno esperienza di disabilità, tali possibilità lavorative si riducono drasticamente.
La strada è lenta e lunga, sicuramente più faticosa, ma anche l’unica percorribile per non continuare a mettere le toppe in un mondo che fa acqua da tutte le parti. Del resto, la lentezza è la lezione che apprendiamo dalla disabilità, che invita a rivedere un mondo perennemente in corsa verso la capitalizzazione di qualsiasi idea, coscienza, fatto, massacro, ingiustizia.