RENZO FRANCABANDERA | Per il secondo anno di seguito AUTUNNO DANZA e SIGNAL FESTIVAL, due manifestazioni storiche dell’arte coreutica contemporanea e dell’arte prerogativa a Cagliari si sono fuse per dar vita ad una rassegna che inglobasse in modo originale e inclusivo le necessità artistiche che le due direzioni già da anni autonomamente proponevano. E’ nato così il progetto DA DOVE STO CHIAMANDO.
La vicinanza delle istanze artistiche che da un lato Momi Falchi e Tore Muroni di SpazioDanza Cagliari per la danza e Alessandro Olla di TiConZero per le arti performative proponevano al loro pubblico, si sono combinate in modo intelligente, con una logica rara da vedere in Italia, che mette a fattor comune risorse, pubblici, idee per creare uno spazio nuovo e ulteriore, condiviso e originale.
Ne abbiamo parlato in un’intervista circolare con i tre promotori, che ci hanno risposto con una logica unitaria, chiedendoci di fatto di riconoscere come un’unica voce quella a cui devono riferirsi le risposte alle nostre domande, ovvero quella della direzione artistica di DA DOVE STO CHIAMANDO.
– Come è stata studiata quest’anno la rassegna e quali idee guida la animano?
Il punto di partenza è sempre quello di indagare le forme artistiche legate ai linguaggi della contemporaneità, cercando di abbattere le barriere fra i generi e mettere in relazione i differenti codici espressivi. Questo è il principio comune da cui siamo partiti nella collaborazione con Ticonzero iniziata già da qualche anno. Inoltre abbiamo operato la scelta di uscire dai luoghi deputati allo spettacolo e individuato nell’Antico Palazzo di Città, nel quartiere medievale di Castello, un contenitore articolato, grazie alla sua specifica partizione architettonica e alla stratificazione dei vissuti storici che l’hanno caratterizzato. E’ un ambiente capace di influenzare in maniera determinante le proposte artistiche delle compagnie ospiti, che lo abitano modificando sostanzialmente la relazione fra i corpi, gli spazi, i suoni e l’insieme visivo.
– L’organizzazione del Festival conta su risorse molto scarse. Potete dirci più o meno come si costruisce il budget di un evento pure così importante per il sud dell’isola come il vostro?
La contrazione dei contributi pubblici alle manifestazioni culturali, ci impone una riflessione sulle modalità di programmazione e spesa delle risorse. E’ stato necessario costruire una rete di collaborazioni fra compagnie attente alla contemporaneità per abbattere i costi della logistica, coinvolgere nuove associazioni di giovani e supportarle nelle loro proposte, proporre laboratori nella scuola pubblica, avere il sostegno del Consorzio dei trasporti e infine raggiungere degli sponsor privati ai quali non si sono chieste risorse economiche ma scambi di servizi e visibilità. Inoltre si è creato un vasto staff di giovani volontari che hanno prestato il proprio impegno in cambio di attività laboratoriale, partecipazione agli eventi e della possibilità di sviluppare importanti esperienze e tessere relazioni.
– In che modo ritenete il festival dialoghi con le altre istituzioni italiane e non solo? Cosa si può fare di più e meglio per rafforzare questo dialogo?
Il problema della relazione fra le attività culturali che nascono in Sardegna con il resto dell’Italia è antico e mai del tutto risolto. Proviamo a creare dei nessi che non siano unidirezionali ma che permettano di mostrare quanto di buono si progetta e realizza nell’isola ed evidenziare il percorso già fatto. Il nostro festival ha una buona risonanza nazionale, è riconosciuto dal Mibac, che di anno in anno va aumentando il sostegno. Tuttavia ci rendiamo conto che ancora molto c’è da fare per superare le difficoltà dell’isolamento e di alcuni preconcetti che vedono la Sardegna più legata a una cultura identitaria tradizionale piuttosto che alla progettazione contemporanea.
– La Sardegna molto spesso è un’isola che si compone al suo interno di altre isole, anche culturali. Quale network sarebbe possibile nel vostro mondo ideale, e quale ruolo (più o meno forte) dovrebbe avere il decisore pubblico?
L’opportunità della candidatura a Capitale europea della cultura, benché Cagliari non abbia raggiunto l’obiettivo, ha attivato una sperimentazione progettuale fra operatori e istituzioni pubbliche. Se è vero che non tutto ha funzionato al meglio, si deve però rilevare che è stato avviato un processo e un confronto prima del tutto inesistente. Speriamo che ciò conduca a superare delle barriere di diffidenza reciproca e permetta di mettere a regime differenti capacità, saperi e creatività. Il decisore pubblico deve realizzare un programma di intervento ben definito nei tempi, nelle modalità di controllo non solo burocratico, per garantire e supportare l’attività artistica e culturale libera e indipendente.
– A quale idea di festival siete più affezionati e in che modo questo percorso congiunto vi avvicina a questa idea?
Siamo affezionati all’idea di festival esattamente uguale a come lo stiamo realizzando: articolato, ricco, inclusivo e espressione di libera creatività! Vogliamo un festival intelligente, raffinato nelle sue proposte, attento al presente e insieme coinvolgente, spettacolare, capace di emozionare, incuriosire e far pensare. Nonostante tutto crediamo che nel valore sociale, politico e liberatorio dell’esperienza artistica
– Quanto pubblico avete avuto l’anno scorso? E che obiettivi avete quest’anno?
Non puntiamo ai grandi numeri! Sappiamo che i linguaggi contemporanei spesso spaventano gli spettatori e rischiano di essere escludenti. Cercando di opporci a questa visione, apriamo soprattutto ai giovani e sperimentiamo che le paure di incomprensione risultano spesso infondate. L’anno scorso il festival ha raggiunto complessivamente circa 1500 persone. Ci auguriamo quest’anno di incrementare il nostro seguito.