MATTEO BRIGHENTI | Il palcoscenico è la tomba d’aspetto di una volontà sconfitta. Quelli che non vanno a teatro sono più di quelli che ci vanno, come i morti crescono più dei vivi. Sempre di più. A teatro non si riesce a fare niente, non si può smuovere nulla, si può solo immaginare il coraggio di addormentarsi e cercare il giorno anche nella notte degli occhi sbarrati. Essere zombi diventa quindi una ragione di vita, un cammino dondolante di conoscenza, una speranza che Elvira Frosini e Daniele Timpano praticano in Zombitudine con la forza e la disperazione degli ultimi tentativi di massaggio cardiaco su un corpo morente. La pagina chiara e inconfondibile di una grande prova d’attori. Per filo, per segno, per gesto.
Visto un anno fa in prima nazionale alla Tosse di Genova, lo spettacolo scritto, diretto, prodotto e interpretato dal duo romano, coppia di fatto teatrale e di diritto matrimoniale, si conferma anche al suo recente debutto all’Orologio di Roma, all’interno di Romaeuropa Festival, un lavoro adulto fatto da due adulti, con la freschezza, la spontaneità e la rabbia autodistruttiva dei giovani più giovani.
Il tema è di genere, da film di serie B o anche B-movie: l’Italia è al centro della conquista degli zombi. Tutta apparenza, da scartare come un regalo di Natale, una finta, un doppio passo per stordire i pregiudizi sulla distanza dal gusto del presente di chi fa teatro per vivere. Frosini e Timpano, infatti, non scelgono un luogo qualsiasi dove rifugiarsi e, nel frattempo, raccontare l’invasione, si trovano in una sala, dove sono pagati per essere attori e il pubblico paga per essere spettatore. Recitano, ognuno dalla propria posizione, il limbo confortevole e atroce di scelte che non possono cambiare, perché non sanno cosa prendere in cambio. Non avere scelta è il punto fermo della Zombitudine.
La durata di uno spettacolo è l’unico progetto di vita possibile, oggi, per un teatrante? Frosini e Timpano, allora, si rappresentano reclusi dalla scenografia in palcoscenico, artisti girovaghi con la valigia in mano, messi spalle a un grande sipario fané (le scene e i costumi sono di Alessandra Muschella). Lì, dietro quella tela, premono gli zombi, cioè la fissità dei ruoli, in definitiva l’istituzione stessa del teatro. Per spaventarli puntano tre dita verso il nulla e urlano “bang, bang!”, niente di più, niente di diverso le loro pistole, nonostante il gesto ricordi le P38 che sparavano pallottole vere come il piombo in quel nostro terrore ’70. La loro bravura sta nel procurarsi un rimpallo sempre favorevole tra l’illusione in pubblico e lo sconforto nel privato, riescono a tenere insieme la vista sul particolare e quella opposta sul generale, come certe iguane che muovono gli occhi l’uno indipendentemente dall’altro. Spesso incitano la platea alla rivolta, ma è coercizione, sono slogan forzati, senza convinzione: gli spettatori si aspettano di vedere l’azione, non di agire.
Il dopo non c’è e il prima passa. Fin qui, dunque, possiamo dire che i due hanno provato a scappare dalla loro scelta obbligata, hanno costruito lo spettacolo sull’attesa di uno spettacolo. Una volta, però, che anche il fuoco d’artificio dei finti zombi che invadono la platea si è spento, non possono più rifiutarsi di calpestare tutto il palcoscenico e non soltanto il proscenio, non possono più rigettare il vincolo inscindibile tra scena e attore: il personaggio.
Calano le luci in sala, tenute accese dall’inizio per marcare la ricerca di un protagonismo della platea, si apre il sipario e comincia la Zombitudine propria di Frosini e Timpano. Illuminati da un taglio spettrale, forse dello stesso colore verde che Pirandello avrebbe voluto per il finale dei Sei personaggi in cerca d’autore (l’ideazione e la realizzazione tecnica delle luci sono di Marco Fumarola e Daniele Passeri), i due recitano le parti di zombi e si stringono, si sorreggono l’un l’altro. Ripartono da una dichiarazione disperata all’amore e all’unità dei corpi e degli intenti, stare ed essere insieme, contemporaneamente. Solo così possono mettersi in scena, restando se stessi. E tenendosi per mano riusciranno pur a sbucare felici da qualche parte nel futuro. Anche se il desiderio è sotto sfratto di uno Stato di cose che non trova requie alla decomposizione.