VINCENZO SARDELLI | «Il potere logora chi non ce l’ha», sentenziava Talleyrand in un aforisma poi scippatogli da Andreotti.
Forse Shakespeare, più fine conoscitore dell’animo umano, si sarebbe limitato a dire: «il potere logora». Per riflettere sulle tante verità di una sua opera, basta una riduzione che non assomigli a un Bignami. Come lo spettacolo Kings. Il gioco del potere, fresco di repliche e sold out allo Spazio Tertulliano di Milano.
Kings, regia di Alberto Oliva, avvia sul potere una riflessione “al cubo”. Siamo tra Autunno del Medioevo e un Rinascimento proiettato verso la modernità. Vediamo sfilare tre sovrani inglesi: Riccardo II, unto del Signore di fine Trecento; Enrico IV, che ne usurpò il trono; Enrico V, figlio di quest’ultimo, che dopo un’adolescenza libertina scavalcò a destra il padre rinnegando i giovanili furori.
Ci ha preso la mano, Oliva. Che nel 2014 si è già occupato di monarchi declinandoli prima secondo il rapporto inscindibile con la follia, nel pirandelliano Enrico IV; poi al femminile con Le regine di Schiller (di ritorno a dicembre al Teatro Oscar).
Michelangelo Zeno riduce la shakespeariana quadrilogia Enrieide a un dramma di novantacinque minuti. Una sintesi snella, al netto di aneddoti e ridondanze onanistiche.
Lo spettacolo si fa seguire, malgrado l’estro a tratti sottotono degli attori Enrico Ballardini, Federica D’Angelo, Martino Palmisano e Paolo Grassi. Convince Angelo Donato Colombo nei ruoli di Enrico V e Bagot. Brillano i due protagonisti meno acerbi: Piero Lenardon, maschera da commedia dell’arte, credibilissimo nei panni del guascone Falstaff; e un Giuseppe Scordio classico nelle vesti di Enrico IV, ben calato in un gioco oscillante tra registri lievi, elegiaci e solenni.
Drammaturgicamente, si fa strada un climax discendente: se il Riccardo II è il più tragico dei drammi shakespeariani, l’Enrico V assomiglia a una commedia. C’è un paradosso concettuale: se il potere, dal primo al terzo re, perde il fondamento divino e si radica nel consenso popolare, non per questo diventa più democratico e trasparente.
Kings ha andatura garibaldina. Leggera è anche l’impalcatura reticolare di antenne e travi, tubi, giunti e innesti che fa da scenografia.
Potrebbe sembrare un work in progress da rifinire questo spettacolo, con una scenografia poco adatta all’ argomento d’alto lignaggio (gli stessi costumi senza orpelli di Sartoria Streghe & Fate si orientano verso la contemporaneità). Ma Oliva, con le scene realizzate da Giuseppe Scordio e Saverio Assumma, s’aggrappa filologicamente un’essenzialità elisabettiana che si affidava totalmente al discorso del poeta, incarnato dall’attore.
Affiorano due altre possibilità circa la scenografia: quella simbolica di un potere che si rivela scheletro vuoto ed esercizio sgraziato; quella tecnica, che sfrutta gli spazi a vista, di volta in volta, come prigione, botola, passerella, labirinto, balcone, patibolo.
Una voce fuori campo dà il la allo spettacolo: fa molto film. Un feretro si rianima: inizia il valzer delle beffe.
Kings è un palinsesto senza orpelli né didascalie, con citazioni azzeccate (sul finale, il Nerone di Petrolini) e un ritmo adatto a ogni tipo di spettatore. Smascheriamo logiche del potere fatte di narcisismo, calcolo e populismo. Nei personaggi affiora la complessità: vittime di un gioco più grande di loro; esseri avidi, ma con quel po’ d’umanità.
Le luci di Alessandro Tinelli scavano nei volti, scelgono dettagli. Scindono azioni ed emozioni. Inchiodano i personaggi al muro, o li circoscrivono in una nicchia di bagliore. C’è spazio anche per una danza d’ombre incappucciate.
I suoni avviano cambi di scena. Dal power metal degli Edguy al classico postmoderno di Penderecki; dalla ritualità psicoacustica di Fabio Vacchi alla carica ritmica dei Rolling Stones, la litania del potere è sempre la stessa: alchimia grottesca, tragedia che non commuove. Resta uno sguardo incerto sul male e sul disgusto che permea le vicende umane. Un sorriso sardonico accompagna la sensazione che i rapporti sociali siano comunque intrisi di violenza e inganno.