RENZO FRANCABANDERA | Per il teatro italiano contemporaneo Il servitore di due padroni è il confronto con due figure mitiche: quella di Goldoni ma anche quella di Strehler, che ha trasformato l’opera del maestro della Commedia dell’arte in un’icona della scena italiana nel secolo scorso, andare a metterci mano è sempre un gioco d’azzardo.
All’apertura del sipario ci troviamo dentro un altro teatro, con un altro palcoscenico delimitato da tendaggi che sembrano quasi pezzi di biancheria stesi al sole ad asciugare.
Gi attori sono i membri di una compagnia che sta per portare in scena uno spettacolo con premesse assai malferme: interpreti che mancano, situazione scenografica caotica e l’impresario che impreca cercando di gestire alla meno peggio il verosimile fallimento.
Gli attori in scena fingono di accorgersi solo allora di trovarsi già il pubblico davanti, guardando noi spettatori, la sala piena; in questo rapporto con l’equivoco sottile fra finto e falso prende le mosse la riscrittura goldoniana che Marco Baliani ha portato in scena con successo in questo scorcio di stagione in una produzione de Gli Ipocriti Melina Balsamo in coproduzione con lo Stabile del Veneto, che ha permesso alla creazione diverse date, molte delle quali andate sold out.
Sicuramente c’è un ritorno di interesse per il codice della Commedia dell’arte e per una sua riattualizzazione. Questo testo (perché il regista ha anche lavorato a una riscrittura) è un tentativo, invero equilibrato e riuscito, di portare i canovacci e le prime schematizzazioni del teatro contemporaneo di cui Goldoni fu artefice alla freschezza di battute e alla satira sociale dell’arco tempo presente.
A farsi interprete del lavoro in scena è un gruppo di attori che mescola gioventù ed esperienza (Marco Artusi, Federica Girardello, Miguel Gobbo Diaz, Margherita Mannino, Valerio Mazzucato, Andrea Pennacchi e Anna Tringali) con un affiatamento di squadra che, complice una regia equilibrata e attenta ai tempi scenici, permette alle figure naturali di esprimersi senza primadonnismi, in una orizzontalità che mira, a nostro parere giustamente, a esaltare il collettivo.
Ovvio che poi il pensiero e l’attenzione vadano alla figura di Arlecchino, enfaticamente evocata già dal titolo dello spettacolo e che ricordiamo è diventato tale non per volontà di Goldoni – che aveva battezzato il suo personaggio Truffaldino – ma per la furbizia di Giorgio Strehler, che dovendo proporre un allestimento che avesse un respiro internazionale immaginò come più accattivante l’intitolazione del ruolo di servitore di due padroni ad Arlecchino.
Il paragone con quell’allestimento, che resta capitale per la memoria della scena italiana degli ultimi 100 anni, grazie anche alla indimenticabile interpretazione di Ferruccio Soleri, è in un certo qual modo ineludibile. E se la scenografia, con l’idea del teatro nel teatro, un po’ evoca il grande allestimento storico del Piccolo Teatro di Milano ma con un canone di povertà di mezzi voluto e scherzosamente irridente in Baliani, il confronto sul tema della maschera protagonista gioca proprio alla smitizzazione.
Questo Arlecchino di Andrea Pennacchi, con il costume dai colori nemmeno tanto accesi se confrontati con quelli di piena vividezza degli altri personaggi in scena (scene e costumi sono di Carlo Sala) è imbolsito, «gonfio», come dice lui stesso, per quella alimentazione da artista di giro, costretto a mangiare economiche pizze a tarda sera nei pochi punti di ristoro che restano aperti per chi va in scena cambiando città dopo città.
Pennacchi, che ha il cruciale merito di fare senza strafare e senza volersi prendere la scena, incorpora una maschera segnata dal passare del tempo, ben lontana da quella tutta frizzi lazzi e capriole cui per decenni ha dato corpo Soleri nel mondo. Questa maschera è soverchiata dal peso degli anni, quasi dal peso di un teatro che l’ha consumata. Il recitato si fa quindi umanamente espressionista e lo avvicina allo spettatore, scegliendo una parlata dialettale ma comprensibile, un veneto “internescional”, ma che gioca anche con i temi della società multiculturale. La trama resta quella ma l’occhio scivola all’oggi, senza che però la cosa cambi la sostanza. In questo gioco bene riesce nel complesso tutta la squadra di attori, impegnati in una recita dai tempi scenici intensi.
Resta grande, comunque, nel movimento, preciso e curato, lo sguardo rivolto all’antica tecnica della Commedia dell’arte, con i corpi snodati, il busto in avanti, le innaturalezze che anticipavano quasi la lezione della biomeccanica.
È presente anche una sezione musicale che agisce dal vivo, visibile allo spettatore e posta alla sinistra del palco del teatro posticcio su cui prende vita la vicenda, un duo chitarra e batteria (Giorgio Gobbo, Riccardo Nicolin), con il chitarrista a fare anche da voce: è una musica contemporanea, dai ritmi rock, che muove le danze in scena, ma che non disturba perché dialoga con la satira verso il tempo presente che di tanto in tanto fa capolino, ma in modo equilibrato nella sostanza.
L’esperimento è curato, sta nella giustezza dell’accessibile, cerca e trova un’onestà senza intellettualismi. Lo spettacolo si nutre di sé stesso, gioca e si prende gioco della tradizione in modo sincero senza lasciare nulla al caso, ma, al contempo, permettendo all’eredità secolare di tornare in una dimensione accessibile ma non oleografica.
Di recente, sfogliando talune traduzioni disponibili del Don Chisciotte, al di là della prosa volutamente e ironicamente aulica di Cervantes, riflettevo su come i traduttori che si sono accinti a restituire in italiano l’opera si siano spesso messi quasi davanti all’autore stesso, sforzandosi di ricercare una parola così poetica, a volte anche forzatamente, da rendere il testo a conti fatti illeggibile da un lettore contemporaneo.
Qui la cura artigianale della versione di Baliani, che comunque resta su Goldoni, sui suoi tempi e sulle sue invenzioni, sta proprio nel porgere l’opera nel rispetto prioritario dei due elementi che a teatro la compongono, ovvero chi la realizza e chi ne deve fruire.
Il traduttore/drammaturgo/regista, come mediatore, in casi come questi in cui si sceglie di restare aderenti a una generale fedeltà d’impianto, ha dunque, forse, il dovere morale di esserci, ma senza la velleità di apparire.
In questa operazione di adattamento del Servitore di due padroni per l’oggi, pare di poter dire che Baliani sul punto specifico riesca. Lo testimonia il riscontro di pubblico che ha riempito le sale da Padova, a Roma, a Firenze fino ad Ancona al Teatro delle Muse dove abbiamo visto una delle ultime repliche prima della chiusura della tournée 2024, ospitato nell’ambito della stagione di Marche Teatro. Alla domanda proposta dal punto interrogativo presente nel titolo Arlecchino? la risposta che viene da dare è “Sì”.
ARLECCHINO?
scritto e diretto da Marco Baliani
con Marco Artusi, Federica Girardello, Miguel Gobbo Diaz, Margherita Mannino, Valerio Mazzucato, Anna Tringali
musiche eseguite dal vivo da Giorgio Gobbo, Riccardo Nicolin
scene e costumi Carlo Sala
luci Luca Barbati
aiuto regista Maria Celeste Carbone
Produzione Gli Ipocriti Melina Balsamo in coproduzione con TSV – Teatro Nazionale
Teatro delle Muse, Ancona | 6 aprile 2024