CRISTINA SQUARTECCHIA l Il binomio arti visive e danza ha da sempre trovato felici approdi creativi nel mondo delle arti sceniche come il progetto Fluxo, ideato da Davide Quadrio. Tra gli artisti protagonisti il coreografo e regista Alessandro Sciarroni, ospite insieme a Quadrio, lo scorso sabato 8 giugno, della sezione Matta Arte Contemporanea a cura di Marcella Russo, per raccontare insieme la genesi e la realizzazione del progetto in un vivace talk allo Spazio Matta di Pescara. Un appuntamento che, parallelamente, ha coinvolto il coreografo Sciarroni – Leone d’Oro alla carriera alla Biennale danza nel 2019 – alla guida del laboratorio di pratiche coreografiche e performative a cura di Monica Ciarcelluti per Atelier Matta – altro segmento di progettazione tra le tante iniziative che prendono vita nello Spazio Matta. Un luogo vitale, generatore di incontri e idee, un punto di riferimento per artisti e operatori nel centro Italia che da oltre un decennio ha portato l’arte nella periferia della città.
Tra queste pareti abbiamo incontrato Davide Quadrio e in maniera più approfondita Alessandro Sciarroni nei giorni del laboratorio. Ci hanno raccontato come è nato Fluxo – vincitore dell’Italian Council della direzione generale creatività contemporanea e rigenerazione urbana del Ministero della Cultura – partendo dalla genesi e ripercorrendo a ritroso il proprio agire compositivo in relazione al personale percorso artistico.
Come è nato il progetto?
DQ: Il progetto nasce al mio rientro in Italia dopo trent’anni in Cina. Un momento di passaggio importante dove mi ritrovo in un’Italia mediterranea irriconoscibile. Sentivo la necessità di un progetto che potesse esorcizzare il mio rientro. Da qui l’idea di pensare a una produzione che guardasse all’Asia del passato recente attraverso un’operazione di riscoperta di maestri quali Shiomi, Yoko Ono, Namjun Park tramite gli occhi di artiste italiane contemporanee. Abbiamo guardato agli autori pre-fluxus che hanno portato in occidente linguaggi e sensibilità estremo-orientali carichi di nuove possibilità e sensibilità. L’acqua vitale, gesti e istruzioni rarefatte, azioni sonore sono alcuni degli elementi analizzati e re-interpretati dalle artiste italiane. Mauricio Kagel in Mare nostrum introduce invece un livello storico (anche qui eco di un’opera moderna e recente) ma che parla di ora e dell’urgenza drammatica di un mediterraneo mortifero, luogo di conquista di una popolazione tribale amazzonica. Una metafora al contrario di un imperialismo devastante e terribile. Come, quindi, non chiamare Alessandro Sciarroni a guardare a questi due livelli simbolici? Da una parte storico/immaginifico e dall’altro vòlto a creare non solo connessioni possibili ma anche un dispositivo sperimentale in cui opere e pubblico diventassero un unicum drammatico.
AS: Fluxo è nato da diverse tappe di produzione. In primis un incontro tra me e Quadrio, quando lui era appena tornato in Italia dopo anni di curatela nei musei in Cina. Ci siamo trovati alla Punta della Dogana di Venezia dove io presentavo un solo e lui era tra il pubblico. È nata una scintilla, in quel momento. Nel desiderio da parte sua di dare a Fluxo la forma di un grande contenitore che comprendesse diversi re-enactment di alcune performance storiche di artiste giapponesi; abbiamo poi allestito l’opera da camera di Mauricio Kagel. Una storia di colonizzazione al contrario dove un nativo americano arriva dal Brasile e conquista i paesi del Mediterraneo.
Mare nostrum è diventato il punto centrale della nostra performance con l’esecuzione di musicisti e cantanti. Artiste come Silvia Calderoni, Ilenia Caleo, Silvia Gribaudi, Chiara Bersani, Rossella Biscotti e Anna Raimondi hanno poi reinterpretato le opere di autrici giapponesi accomunate dal tema dell’acqua. Abbiamo così invaso con queste performance e con l’opera di Kagel gli spazi dell’HangarBicocca di Milano. Poi il progetto si è realizzato in due serate dal vivo e in video che sta girando in musei e mostre in Italia e all’estero trovando una sua forma definitiva.
Oggi Davide è diventato direttore del Mao – Museo orientale di Torino e chissà che non continueremo a collaborare insieme.
Come hai sentito la tua creatività mentre eri immerso in Fluxo e poi fino al suo sviluppo conclusivo?
AS: Molto diversa da tutto ciò che ho fatto prima e tutto ciò che verrà dopo. È un progetto che ha trovato la luce nel 2021, in un momento ancora pandemico. Nel curare la regia e le coreografie dell’opera da camera di Kagel e data la lunga durata dell’opera di circa due ore, abbiamo pensato di attivare le altre performance giapponesi intorno e di collocare il tutto al centro dell’HangarBicocca, nello spazio più lontano dall’ingresso, in modo da far perdere allo spettatore la sensazione di poter vedere tutto quello che accadeva ma spostandosi.
E questa è stata per me un po’ una sfida perché fino a quando non l’abbiamo testata sul pubblico non sapevamo quello che sarebbe successo. Ma in realtà ciò che speravo accadesse è accaduto: nel decentrare ti accorgi che qualcosa la perdi, che devi lasciar andare, e quindi in maniera intuitiva e casuale non sei più alla ricerca di afferrare tutto. Il pubblico arrivava così fino in fondo alla sala e si muoveva liberamente con estrema calma e serenità negli spazi intorno per visitare più situazioni in simultanea, cosa assai insolita per un pubblico milanese delle arti visive, abituato a consumare tutto in tempi rapidi. Mi è piaciuta l’idea di offrire un tempo lento e libero. Questo è quanto adesso riconosco del mio lavoro: una dimensione del tempo diversa, maturata attraverso la regia di una serata intera e impegnativa come l’opera. La scoperta gratificante è stata proprio questa nuova percezione del tempo.
Come ti sei trovato qui a Pescara?
Qui a Pescara mi sono trovato bene anche se ci sono stato per poco tempo per averne vera consapevolezza. Mi è piaciuto lo scambio con il pubblico, l’atteggiamento di Marcella e Davide nel raccogliere le impressioni più disparate. Ho nel frattempo incontrato l’energia nel workshop che sto conducendo, mi piace condividere insieme ai performer le pratiche dei miei lavori. Ne abbiamo scelte due: una viene da Dream (2022) una performance di cinque ore sul concetto di un corpo che si distende nel tempo. E l’altra sul tema del tourning, dinamica ampiamente sviluppata in una serie di miei spettacoli sul concetto di corpo che ruota intorno al proprio asse.
Il pubblico, o meglio lo sguardo dello spettatore, è centrale nel tuo lavoro. Che tipo di relazione ti piace instaurare?
Il pubblico è fondamentale per due motivi. Il primo è che parto dal presupposto che sono io il primo spettatore di ciò che creo. E quindi mi pongo come osservatore e spettatore. Metto in campo i desideri, le cose che mi mancano, mi accorgo di ciò che voglio o non voglio vedere. Le cose che mi colpiscono le registro e le tengo. Del resto tutto quello che facciamo sottende, nella nostra intenzione, allo sguardo esterno, e quindi è destinato ad essere visto. Ma nello stesso tempo mi piace dire che noi facciamo pratiche per condividere le energie con lo spettatore, senza dimenticare che la scena è casa nostra e il pubblico è il nostro ospite, noi sappiamo esattamente come deve andare la serata e quali sono le cose più importanti per noi. Quindi una via di mezzo tra la condivisione e la rivendicazione di ciò che siamo come artisti e l’affetto per il nostro lavoro.
Da tempo indaghi sulle strutture del folklore riprendendone in modo decontestualizzato i diversi modelli. Cosa ti affascina di questo repertorio?
In verità sono attratto dalle pratiche umane che si svolgono all’unisono, da tutte quelle regole leggibili che guidano le attività di gruppo. Un interesse che mi riporta all’infanzia, quando da bambino mi incantavo a guardare gruppi di animali che si muovono all’unisono o gli insetti che camminano in fila indiana o stormi di uccelli che volano in maniera precisa in gruppo. Quando vedo gli esseri umani in questa situazione mi viene in mente il mistero dell’universo.
Mi tornano quelle domande che mi ponevo da bambino sull’origine dei fenomeni. Quindi il mio interesse va verso la polka bolognese e in particolare quella chinata, di cui esistono tante versioni, o i balli popolari tirolesi – la cui pratica abbiamo affrontato nel 2012 con Folks. Mi sembra di ricevere un’energia dal passato e la struttura diventa un archetipo che si carica di mistero, perché si tratta di fenomeni culturali la cui potenza è riuscita a sopravvivere alla contemporaneità e quindi si caricano di fascino. Il mio interesse si dirige verso quei fenomeni culturali che non sono trattati come qualcosa di esotico o considerati come rievocazione storica, per esempio i balli tirolesi vengono insegnati di generazione in generazione come qualcosa di sempre vivo, e questo è ciò che mi interessa.
Che cosa è per te il repertorio?
Il repertorio è una questione molto aperta. I lavori, le creazioni non si estinguono mai. La danza non si estingue come le specie di animali o vegetali. La danza si estingue soltanto se cade nell’oblio, se nessuno se la ricorda, se non ci sono più documenti. La danza ha la capacità di saltare intere generazioni, di sparire per anni ma poi se c’è qualcuno che ne ha memoria, se ci sono dei documenti, dei video o degli scritti, la danza e il repertorio ritornano.
Rispetto a quello che mi chiedi, ciò che viene chiamato repertorio, il mio immaginario è molto più ampio, nel senso che – come accade nei miei lavori – mi piace sconfinare nelle pratiche non legate alla danza, come lo sport e le attività circensi, che però hanno lo stesso significato della danza. Mi raccontano sempre di quel mistero dell’universo che interrogo da bambino. Sento sempre la stessa energia e non mi interessano le gerarchie, la polka chinata ha la stessa potenza e bellezza della danza tirolese o della danza classica.
Hai ricevuto il Leone d’Oro alla carriera come coreografo nel 2019, nella Biennale Danza diretta da Marie Chouinard, circondato da affetto e polemiche. Come hai vissuto quel momento della tua vita artistica e personale?
Per me c’è stata un’incredulità nel ricevere la notizia. Fino ad allora non era mai avvenuto che un artista della danza ricevesse un premio alla carriera così presto. Qualcosa di simile era accaduto per il teatro con il tedesco Thomas Ostermeier nel 2011. Ero consapevole che sarei stato circondato da affetto ma anche da polemiche. E confesso che ci ho dovuto lavorare. Mi ha aiutato ripensare al fatto che alle stroncatura ci avevo fatto il callo sin dai miei inizi: il mio lavoro piace a molti ma può deludere molti altri. Ho fatto i conti subito con la possibilità di essere spettatore di me stesso. Si parlava di me come artista, di cosa avessi studiato. In quel momento rifletti sul premio e dal momento che lo accetti te ne assumi la responsabilità. Oggi sono anche grato a quelle polemiche, mi hanno aiutato a essere quello che sono.
Foto di scena Mara Patricelli