RENZO FRANCABANDERA | A un certo punto verso le undici di sera un gruppo di indemoniati muniti di telecamera, inseguendo uno sgangherato plotone di pazzi semisvestiti, fece irruzione dentro il cinema di Santarcangelo pieno zeppo di spettatori che fino a quel momento avevano assistito a un film. Solo che il film era un montato in diretta di quello che con quattro o cinque telecamere, forse anche più, i videomaker raccoglievano live in giro per la cittadina romagnola, facendo succedere cose dentro una drammaturgia temporizzata al secondo: gli artisti del collettivo Gob Squad si sforzavano affinché, pur nella assoluta casualità di quanto poteva accadere di sera nelle strade del borgo, si arrivasse a creare comunque una vicenda, dai toni assurdi e popolar-romantici. Obiettivamente Super Night Shot fu un successo incredibile a Santarcangelo 40, perché tutto girò alla perfezione, arrivando finanche a una sorta di shakespeariano bacio fra una Giulietta e un Romeo di Romagna, due persone che si incontravano in realtà per strada per caso e che diventavano protagonisti di una vicenda dal tratto davvero surreale.
Sono stati altre volte in Italia, fra Torino e Milano, ma il loro rientro quest’anno è stato trionfale in senso stretto, perché ha coinciso con l’assegnazione del Leone d’argento alla Biennale di Venezia, l’ultima con la direzione artistica condivisa di Stefano Ricci e Gianni Forte.
Hanno presentato uno spettacolo e una videoinstallazione. Domenica 16 giugno c’è stata quindi la consegna del premio mentre la sera prima il pubblico ha potuto assistere al loro spettacolo del 2018 e in prima nazionale a Creation (Pictures for Dorian) al Teatro Piccolo Arsenale.

La premiazione ha restituito sotto molti punti di vista la cifra precisa non solo di lavoro ma anche di pratica artistica del gruppo, perché i premiati hanno voluto che pian piano la pedana si popolasse anche dei collaboratori, di chi lavora per loro in segreteria o in amministrazione, e anche di qualche curatore che, pionieristicamente, anni prima, aveva creduto in loro.
Ci tengono a dirlo esplicitamente: il loro è stato e resta un sogno collettivo, pur nella fatica di declinare questo concetto.
Effettivamente sono pochissimi i sodalizi creativi che resistono così tanto, così tenacemente all’andare del tempo, mantenendo una struttura di pensiero e un’organizzazione orizzontale. Rispondendo a una domanda qualcuno di loro dice: quando uno di noi ha un’idea e la butta nella stanza in cui stiamo lavorando, quell’idea diventa di tutti e non sapremmo dire alla fine da chi è arrivato questo o quel contributo, perché tutto finisce per sovrapporsi, si impasta in un faticoso percorso di reciproca accettazione.
Sono stati destinatari di numerose etichette, da quella post-drammatica a quella di teatranti con le telecamere: è certamente innegabile che alcuni di loro abbiano studiato con i teorici del teatro post-drammatico, come pure che la loro gioventù creativa sia coincisa con quella dell’avvento del dispositivo di registrazione video trasportabile.
Ma in effetti la loro presenza sulla scena internazionale ha suggestionato una intera generazione, con la deframmentazione drammaturgica, la ricomposizione filmica, l’innesto nella realtà della vita quotidiana. Anche la creazione scenica portata a Venezia si configura come un dispositivo che due giorni prima di andare in scena si è popolato della presenza di alcuni attori, che cambiano di volta in volta a seconda del luogo dove lo spettacolo replica. Loro arrivano e lavorano duramente con gli interpreti locali per arrivare a una creazione originale e drammaturgicamente sempre diversa, sebbene con alcuni ovvi punti di tangenza e ricorrenze concettuali.
Qui si è trattato di un gruppo assai eterogeneo sia per anagrafe che per provenienza artistica (Alessandro Bressanello, Guido Laurjni, Manuel Nakhil, Margherita Piantini, Pierandrea Rosato, Yoko Yamada), capace di creare un mélange bizzarro e assortito, dentro una più ampia riflessione che ha a che fare con il tempo, l’affermazione della propria identità, l’essere dentro o fuori una cornice, l’appassire. Non a caso il sottotitolo della creazione rimanda all’opera di Oscar Wilde (Il ritratto di Dorian Gray) archetipo del cambiamento ma anche della immutabilità, per certi versi dell’identità. Sebastian Bark (mixaggio sonoro dal vivo) e il video designer Miles Chalcraft (mixaggio video dal vivo) garantiscono il miscuglio fra l’imprevedibilità del reale e il loro sogno di governarlo al millesimo di secondo senza sbavature.
Ugualmente icastica e rappresentativa del loro linguaggio è l’installazione Elephants in Rooms che sarà ospitata fino alla fine di questa edizione della Biennale Teatro negli spazi, davvero molto belli, di Forte Marghera, per raggiungere i quali prendiamo il tram T1 da piazzale Roma per scendere dopo due fermate in questo luogo che un tempo era una piazzaforte militare, con casupole in mattoni rossi, ora ripensate come spazio di creatività e socialità nel verde.
Qui, su una serie di schermi, vanno in scena dei video, in loop, che apparentemente sembrano staccati fra loro, ma pian pianino, spostandosi di stazione in stazione, si coglie subitaneamente una unità creativa che non riguarda solo il luogo in cui questi video sono registrati e cioè interni domestici, dietro le vetrate, ispirati un po’ al mood COVID (l’installazione è del 2022); infatti dentro queste narrazioni, come in Super Night Shot, in momenti ben precisi, sincronizzati, solo apparentemente casuali, si crea coralità, e queste solitudini diventano un insieme, una massa capace di convergere verso emozioni comuni. Non è un caso che, sempre nella cerimonia di assegnazione del Leone d’argento, loro abbiano menzionato come primo pensiero proprio il tema della lotta contro la solitudine, che pare una delle missioni del loro fare arte.
I video sono stati filmati dai diversi interpreti con i loro telefoni a Bangalore, Bayrischzell, Berlino, Mumbai, Brandeburgo, Devon, Fuerteventura, New York, Shanghai, Sheffield e Shenzhen. Il tramonto marino che fa da sfondo a tutto è stato ripreso a Plymouth Sound, sulla costa meridionale dell’Inghilterra, porto da cui le navi salpano, fin dal XVII secolo, per esplorare e conquistare il mondo. Solo che il moto ondoso va all’incontrario.

L’istallazione sviluppa una sua poetica originale, crea un ambiente specifico connotato anche da una serie di ulteriori scelte, come quella di mettere poltrone e divanetti per permettere la fruizione, e una macchina per l’acqua calda e le bustine di tè. Un rituale domestico, un invito a prendersi il proprio tempo fuori dalla frenesia del contemporaneo. Forse il loro segno non è pulitissimo, impastandosi sempre di un rituale di gioco che talvolta si allunga drammaturgicamente e risulta anche stilisticamente legato alle poetiche e alle sperimentazioni di un decennio fa. Ma resta una freschezza viva, autentica, una capacità di attrarre e generare coinvolgimento e di interloquire con la sensibilità individuale, quale che essa sia, dentro un meccanismo che, mascherandosi da gioco, lascia sempre allo spettatore qualcosa da portarsi a casa.
Io, dopo 15 anni, lo spettacolo che vidi nell’edizione numero 40 di Santarcangelo, con il suo dispositivo e i suoi esiti performativi, me lo ricordo ancora chiaramente.

Molto meno casuale e anzi pensato nei minimi dettagli, meditato in modo estremo, verrebbe da usare l’aggettivo sudato, è invece Crisalidi, spettacolo presentato in abbinata ed esito del lavoro del vincitore di Biennale college 23-24.
Ciro Gallorano ha presentato il suo Crisalidi alle Tese dei Soppalchi, il teatro messo di fianco al Padiglione Italia all’Arsenale, che quest’anno ospita anche Biennale Arte.
Gli spettatori arrivano in teatro e passano davanti alla bellezza di questo luogo che sa essere poetico deserto postindustriale dentro la magia della laguna.
L’ambientazione dello spettacolo di Gallorano è buia. All’ingresso in sala gli spettatori trovano una bambina di spalle che gioca con la corda e salta, mentre attorno a lei si sviluppa un ambiente domestico con una scenografia che di lì a poco prenderà letteralmente vita.
Sul fondo un parallelepipedo verticale ricorda nella sua desolazione le torri celesti di Anselm Kiefer all’Hangar Bicocca, se non fosse che davanti a questo solido dall’intonaco un po’ scrostato c’è una credenza, in proscenio sulla sinistra un’ampia scrivania e sulla destra, a chiudere lo sguardo, una piccola vasca da bagno di quelle di un tempo. L’atmosfera, connotata in modo efficace dalle scenografie di Alberto Favretto e dai costumi di Gianluca Sbicca, è effettivamente d’antan.
La vicenda narrata è al femminile, ispirata alla vita e alle opere di Francesca Woodman, fotografa nata nel 1958 e morta giovanissima nel 1981, rimasta influente nella storia della fotografia contemporanea per il suo uso delle esposizioni lunghe o della doppia esposizione, in modo da poter partecipare attivamente all’impressione della pellicola (cosa che pure con un raffinato espediente viene ricordata in scena). Ma si respira anche la presenza poetica di Virginia Woolf, nelle suggestioni di Gallorano. A interpretarla/le due attrici, una il personaggio incarnato, l’altra il suo doppio onirico (Sara Bonci, Andreyna de la Soledad), che letteralmente trasuda dalle ferite nei muri. La scenografia nel frattempo si è mossa, aperta a ventaglio come un antico separé che si apre e diventa l’interno di una casa, crea un dialogo fra il sé e chi che ci abita in termini di inquietudini, desideri, idee, paure.

L’atmosfera ha una cifra da racconto gotico, con sequenze che virano visivamente e compositivamente verso l’inquietante. La scelta del regista è quella di non usare la parola, quindi la drammaturgia è tutta legata al movimento, al disegno luci (Sander Loonen) e al modo in cui i corpi e i gesti abitano questo luogo, grigio, freddo. Si tratta di una narrazione evidentemente di solitudine, costruita fra ombre, pieni e vuoti, gesti ossessivi. Se all’inizio qualcosa può ricordare le prime creazioni di Muta Imago per l’assenza di parole ma anche per un certo segno poetico, con l’andare del tempo la creazione genera un suo codice specifico originale.  Il regista, con il suo fare artigiano, è riuscito a realizzare un’opera ispirata, che non demerita affatto il palcoscenico che la vita gli ha offerto, evidentemente per talento.

Se il rimando dei segni e il modo espressivo generale può evocare, anche con riguardo alla presenza della figura femminile in scena, non di rado completamente nuda, stilemi scenici anni ’70, si respira comunque una scelta di contemporaneità, anche se l’ambientazione, come detto, resta d’epoca.
Il lavoro merita, al netto di piccoli aggiustamenti ed eventuali ritocchi dopo questo primo andare in scena, ma è una creazione che può tranquillamente andare in stagione nei teatri italiani.
E questo ce lo auguriamo, in primis per l’artista, un giovane schivo ma totalmente dedito alla creazione, appassionato dei linguaggi delle arti in senso pieno, come si comprende immediatamente dal piglio pittorico delle scene, in cui senza che mai diventino tableaux vivants, oltre che fra le foto della Woodman si può viaggiare fra de La Tour, Magritte . Ma in secondo luogo anche per viaggiare a ritroso fra le fotografie della artista a cercare i segni scenici non casuali. Quella che nello spettacolo a un certo punto potrebbe apparire una crocifissione allo stipite della porta, per esempio, è prima di tutto una nitida citazione di una foto della artista.


Francesca Woodman, Untitled, 1977-1978 © Betty and George Woodman

I muri della scenografia, che arrivano a cambiare colore grazie all’uso di pittura fotosensibile, sono i muri scrostati delle sue foto, in cui i corpi a tratti si mimetizzano, così come sono citazioni i giochi e le ossessioni per i capelli delle protagoniste, che rimandano a tante foto della artista.
Di suo, Crisalidi ha il pregio di essere radicato nell’immaginario che l’ha originato ma per molti aspetti astratto rispetto allo stimolo creativo di partenza, che in scena non viene svelato nei dettagli: lo spettatore che si aspetta una drammaturgia o un filo da seguire rimarrà forse deluso. Conoscere un po’ l’opera fotografica della artista potrebbe giovare a chi arriva in sala, per godere appieno di questa incarnazione scenica delle immagini, sequenze in continuo movimento. Ma a volercisi immergere, come fa una delle due protagoniste nella vasca fino quasi a perderci il respiro (un rimando questo al suicidio della Woolf), la creazione offre più di uno stimolo e più di una suggestione: a distanza di qualche giorno la permanenza retinica di quello a cui si è assistito resta. E la cosa è indicativa, in un mondo di spettacoli di facile consumo di cui all’uscita a malapena si ricorda il titolo. Questo è un lavoro d’altra specie. Per fortuna.

CREATION

Anno/Durata: 2018, 110’ (prima italiana)
Ideazione: Gob Squad
Di e con: Johanna Freiburg, Sean Patten, Sharon Smith, Berit Stumpf, Sarah Thom, Bastian Trost, Simon Will
Cast per la Biennale Teatro 2024: Berit Stumpf, Johanna Freiburg, Bastian Trost, Sean Patten
Ospiti veneziani: Alessandro Bressanello, Guido Laurjni, Manuel Nakhil, Margherita Piantini, Pierandrea Rosato, Yoko Yamada
Sound design: Sebastian Bark (mixaggio sonoro dal vivo)
Video design: Miles Chalcraft (mixaggio video dal vivo)
Costumi: Ingken Benesch
Realizzazione scene: Lena Mody
Disegno luci, direzione tecnica: Chris Umney
Drammaturgia, organizzazione: Christina Runge
Assistenza artistica: Mat Hand, Amina Nouns
Assistente ai costumi: Claudia Gali
Assistente scenotecnica: Julia Buntzel
Assistente di produzione: Ben Mohai
Tirocinanti: Patty Kim, Amina Nouns
Manager compagnia: Marta Hewelt
Pianificazione economica: Caroline Gentz
Amministrazione e produzione: Grischa Schwiegk
Distribuzione: Talea Schuré
Si ringrazia: David Ellington, Jamie Beddard, Carina Zox, il maestro di ikebana Nicolaus Peters, tutte e tutti gli ospiti durante i periodi di residenza e le prove
Musiche di: Kate Bush, Julius Eastman, Group Therapy, The Carpenters, Dalbello, Battles, Fever Ray, Yacht, The Unthanks, Bernd Wiesemann
Produzione: Gob Squad e HAU Hebbel am Ufer (Berlino)
Con il supporto di: Center Theatre Group (Los Angeles)
Coproduzione: Münchner Kammerspiele, Schauspiel Leipzig, Wiesbaden Biennale, Schlachthaus Theater Bern
Commissione: LIFT, Brighton Festival, Attenborough Centre for the Creative Arts
Un progetto: Imagine 2020 (2.0), sostenuto dal programma Europa Creativa dell’Unione Europea
Sostenuto con finanziamenti pubblici da: Arts Council England
Note: Finanziato dallo stato di Berlino, Cancelleria del Senato di Berlino per la Cultura e l’Europa / Gob Squad è un ente regolarmente finanziato nell’ambito di Konzeptförderung 2024-2027 dal Dipartimento del Senato di Berlino per la Cultura e la Coesione Sociale

visto il 15/6/2024

ELEPHANTS IN ROOMS

Anno/Durata: 2022, 137’ (prima italiana) installazione video multischermo
Ideazione: Gob Squad
Sviluppo, video, performance: Zhao Chuan, Johanna Freiburg, Lynn Fu, Anuja Ghosalkar, Alice Hu, Sean Patten, Bhavana Rajendran, Sharmistha Saha, Sharon Smith, Berit Stumpf, Sarah Thom, Bastian Trost, Simon Will e July Yang
Musica: Jeff McGrory & Chris Umney (Animal Magic)
Arrangiamento, disegno sonoro: Chris Umney
Montaggio video: Louise Stevens
Progettazione dell’installazione e direzione tecnica: Manuel Reinartz
Drammaturgia e organizzazione: Christina Runge
Collaborazione artistica: Amina Nouns
Traduzione, sottotitoli: PANTHEA – Cornelia Enger, Sujatro Ghosh, Corinne Hundleby, Jayme Lawman, Katrin Meyberg, Sankar Venkateswaran, Maria Wünsche
Interprete lingua dei segni austriaca: Martina Kichler
Interprete lingua dei segni cinese: Jayme Lawman
Produzione: Lynn Fu (Cina), Anuja Ghosalkar (India)
Manager compagnia: Marta Hewelt
Pianificazione economica: Caroline Gentz
Amministrazione e produzione: Grischa Schwiegk
Distribuzione: Talea Schuré
Si ringrazia: Jan Ahlrichs, Michael Busch, Nidhi Mariam Jacob, Advait Kabir, Peggy Mädler, Wu Meng, Ashish Ranjan, Charlie Wu, Luka Wu, Wei Zhuang
Produzione: Gob Squad
In collaborazione con: Zhao Chuan, Lynn Fu, Anuja Ghosalkar, Alice Hu, Bhavana Rajendran, Sharmistha Saha e July Yang
Coproduzione: HAU Hebbel am Ufer (Berlino)
Note: Con il sostegno di Fonds Darstellende Künste con fondi del Commissario del Governo Federale per la Cultura e i Media nell’ambito del programma Neustart Kultur / Gob Squad è un ente regolarmente finanziato nell’ambito di Konzeptförderung 2024-2027 dal Dipartimento del Senato di Berlino per la Cultura e la Coesione Sociale

CRISALIDI

Anno/Durata: 2024, 65’ (prima assoluta)
Ideazione e regia: Ciro Gallorano, vincitore Biennale College Teatro – Regia Under 35 (2023-2024)
Con: Sara Bonci, Andreyna de la Soledad
Scene: Alberto Favretto
Disegno luci: Sander Loonen
Costumi: Gianluca Sbicca
Assistente alla regia: Federica Lea Cavallaro
Tutor del progetto: Stefano Ricci e Gianni Forte
Produzione: La Biennale di Venezia
Si ringrazia: Fondazione Fabbrica Europa per le arti contemporanee, Cantiere Artaud

visto il 16/6/2024