GIULIA BONGHI | Correva l’anno 1607 quando, al Palazzo Ducale di Mantova, andò in scena L’Orfeo. Non già prima opera, ma primo capolavoro della storia del teatro musicale. Claudio Monteverdi e il suo librettista, Alessandro Striggio, la chiamano «Favola in musica».
Alcuni anni prima Jacopo Peri e Giulio Caccini avevano rappresentato Euridice, basato sullo stesso mito. La fortuna di Orfeo dipende senz’altro dalla complessità e dalla versatilità di questa figura mitologica, che si sviluppa gradualmente dall’antichità, assorbendo sempre nuovi elementi all’interno di testi e opere d’arte. Tra i diversi aspetti che lo descrivono possiamo annoverare le sue qualità poetiche e musicali, il potere di incantare gli animali – quindi, allegoricamente, di civilizzare gli uomini con la musica e l’eloquenza -, la sua partecipazione al viaggio degli Argonauti, l’amore e il tema dello sguardo.
Il mito nasce probabilmente dalle pratiche sciamaniche nel nord della Grecia, presso i Traci. Gli sciamani avevano il potere di attraversare le frontiere tra il mondo dei vivi e quello dei morti e un’influenza magica sulla natura e sugli animali, che in parte si basava sugli effetti incantatori della musica; inoltre, avevano doti profetiche e sapevano recuperare i morti dagli Inferi. Vista in questa prospettiva, la storia di Orfeo ed Euridice non è un racconto meramente sentimentale, di amore e morte, vi è un tratto più essenziale e universale: l’idea che il qui e l’aldilà non siano irrevocabilmente opposti l’uno all’altro bensì parte di un unico mondo. Colui che è dotato di una capacità di visione o di una forza d’amore più che umane può conoscere questo tutto, può passare da qui all’aldilà e viceversa, e può redimere gli altri dando loro una nuova vita.
Nel nuovo allestimento della Fondazione Teatro Amilcare Ponchielli di Cremona, sono ben divisi e rappresentati il mondo terreno e l’averno, all’interno dell’idea registica di Olivier Fredj e delle scene firmate da Thomas Lauret. L’abbassamento delle quinte mobili dipinte, effetto gesso sulla lavagna, e lo zoom progressivo della proiezione sul fondale nel momento in cui Orfeo decide di andare nell’Ade, danno la percezione della corsa inarrestabile verso gli abissi eterni. Il rapporto dell’eroe con la morte è una tematica che emerge già ad apertura di sipario, con una citazione di Jean Cocteau: «ogni giorno nello specchio vedo la morte all’opera». Si riallaccia al suo film Orphée in cui il famoso poeta Orfeo è ossessionato dalla Morte, persino se ne innamora.
I contenuti video, creati da Jean Lecointre e Julien Meyer, si attengono a un immaginario surrealista, evidenziando il tema dello sguardo. Così pure i costumi ideati da Camilla Masellis e Frédéric Llinarès, che spaziano dal Cinquecento al primo Novecento.
Il mito di Orfeo visse una grande diffusione, dalla fine del Quattrocento, all’interno di due grandi corti dell’epoca: i Medici e i Gonzaga. Entrambe le famiglie lo utilizzarono per motivi propagandistici, poiché Orfeo simboleggiava la promozione culturale e un regno pacifico.
I Gonzaga, che regnavano a Mantova dal 1328, avevano grandi interessi umanistici. Oltre a commissionare la Fabula di Orfeo a Poliziano, attirarono alla corte Andrea Mantegna che dipinse il mito di Orfeo nel Palazzo Ducale. Il mito arriva all’apice della sua fama con l’opera di Monteverdi, commissionata per il Carnevale da Vincenzo Gonzaga.
Il prologo è recitato dalla Musica, che prepara lo spettatore a un’alternanza di canti lieti e canti mesti. La voce di questa personificazione è Jin Jiayu, nel ruolo anche di Euridice, soprano dal timbro delicato e luminoso. Il primo atto comincia con le nozze tra Euridice e Orfeo, interpretato da Marco Saccardin che a fine spettacolo imbraccia la tiorba, regalando al pubblico un’immagine ideale del personaggio, musicalmente e scenicamente. Margherita Sala è la Messaggera, nel libretto Silvia, che con voce vibrante ed espressiva porta la notizia della morte di Euridice per il morso di un serpente. Orfeo scende dunque nell’Ade per convincere Plutone – Rocco Lia – a restituirgli l’amata. Viene scortato dalla Speranza – Laura Orueta – che non può entrare nel regno degli Inferi, per via della legge scritta, di evidente richiamo dantesco, «Lasciate ogni speranza ò voi ch’entrate».
Con il suo canto Orfeo addormenta Caronte – Alessandro Ravasio. Si tratta dell’aria più elaborata dell’opera, nonché il momento in cui viene mostrato il potere magico della musica. Proserpina – Paola Valentina Molinari – sente il canto di Orfeo e implora la pietà di Plutone. Il Dio non nega un favore alle preghiere della sua sposa, tuttavia, proibisce a Orfeo di volgersi verso Euridice. Questa lo segue mentre Orfeo si muove verso l’uscita, lui comincia però a dubitare che lei lo stia seguendo. Quando sente uno strepito pensa che le furie stiano per assalirlo e rapirgli la moglie, per questo, volge il suo sguardo dietro di sé. Uno spirito sottolinea l’errore di Orfeo, che si mostra indegno della grazia di Plutone e viene ricondotto alla luce.
Esistono due conclusioni de L’Orfeo: la prima è quella del libretto di Striggio del 1607, in cui Orfeo viene sbranato dalle Menadi; l’altra si trova nella partitura stampata del 1609. L’esito infelice è stato sostituito con un lieto fine: Apollo porta Orfeo in cielo, viene così inserita una chiave moralistica cristiana: chi ha sofferto l’inferno sulla terra, sarà ricompensato con la grazia divina.
Dalle note di regia sul foglio di sala, leggo che l’idea registica, nel tentativo di attualizzare l’opera monteverdiana, viene impostata sulla fisica quantistica e in particolare sul paradosso del gatto di Schrödinger, un esperimento ideato nel 1935 dal fisico austriaco Erwin Schrödinger, ultimamente molto à la page su scene e pubblicazioni. Sostanzialmente, è stato creato un parallelismo tra il tema dello sguardo e il principio di indeterminazione di Heisenberg. Semplificando, l’osservazione nella meccanica quantistica è la perturbazione di un sistema che prima esisteva in tutti i suoi stati possibili. Ecco il famoso caso del gatto nella scatola: finché non la apro non posso sapere se sia vivo o morto. Quando tolgo il coperchio e lo osservo ne determino lo stato. Così Orfeo con Euridice: nel dubbio che lei lo stia seguendo, se, insomma, sia viva o morta, egli si gira. Così facendo ne determina la realtà ed ella assume uno dei due stati.
Ma c’è di più! Anche lo sguardo dello spettatore modifica la realtà: alla fine dell’opera, nel momento salvifico in cui Orfeo viene portato in cielo, si accendono le luci in sala e le quinte e il fondale escono, liberando la scena e mostrando il retropalco, il teatro nella sua nudità. Lo spettacolo è uno dei possibili stati del luogo teatrale.
In definitiva, scenicamente non vi sono molti riferimenti a queste riflessioni. Se non fosse stato per il foglio di sala, si sarebbe colta solo la centralità del tema dello sguardo, già di per sé precipuo nel racconto. Lo spettacolo è in ogni caso godibile, soprattutto grazie alla guida di Francesco Corti, Maestro al cembalo, e la resa molto raffinata ed espressiva de Il Pomo d’Oro.
Gli interpreti, molti dei quali vincitori o semifinalisti del I Concorso Cavalli Monteverdi Competition, e il Coro Monteverdi Festival – Cremona Antiqua diretto da Diego Maccagnola, sono generalmente precisi e generosi. Oltre ai già citati: Giacomo Nanni nel triplice ruolo di Apollo, Pastore e Spirito; Emilia Bertolini, Ninfa; Roberto Rilievi, Pastore e Spirito; Mattero Straffi, Pastore e Spirito; Sandro Rossi, Pastore.
Insomma, un inizio promettente per la 41ª edizione del Monteverdi Festival.
L’ORFEO
Favola in musica in un prologo in e cinque atti
Musica di Claudio Monteverdi
Libretto di Alessandro Striggio
Orfeo Marco Saccardin
La Musica, Euridice Jin Jiayu
Messaggera Margherita Sala
Proserpina Paola Valentina Molinari
Speranza Laura Orueta
Ninfa Emilia Bertolini
Caronte Alessandro Ravasio
Plutone Rocco Lia
Apollo, Pastore, Spirito 3 Giacomo Nanni
Pastore 1, Spirito 1 Roberto Rilievi
Pastore 3 Sandro Rossi
Il Pomo d’Oro
Maestro al cembalo Francesco Corti
Coro Monteverdi Festival – Cremona Antiqua
Maestro del Coro Diego Maccagnola
Regia e costumi Olivier Fredj
Scene Thomas Lauret
Costumi Camilla Masellis, Frédéric Llinarès
Light designer Nathalie Perrier
Visual content creator Jean Lecointre
Video maker Julien Meyer
Assistente regia Chiara Raguso
Allestimento della Fondazione Teatro Amilcare Ponchielli di Cremona