RENZO FRANCABANDERA | Un finale esaltante, una settimana di grandissimo teatro, aperto a uno sguardo internazionale che speriamo resti anche con la prossima direzione artistica di Biennale Teatro, dopo il quadriennio guidato da Stefano Ricci e Gianni Forte che si è appena concluso con l’edizione 2024, il 30 giugno scorso.
A suggellare la linea di sensibilità e ascolto di questa direzione è arrivato il Leone d’Oro alla compagnia australiana Back to Back Theatre, capofila del rinnovamento teatrale nel continente australe e fra le più conosciute al mondo nel fare della disabilità strumento di indagine artistica: fondata nel 1987 dagli artisti con disabilità Simon Laherty, Sarah Mainwaring, Scott Price, cui si è aggiunto nel 1999 Bruce Gladwin come direttore artistico, i Back to Back hanno girato il mondo con i loro lavori.
Non mancano anche in Italia in questo ambito esperienze ultradecennali dai pregevolissimi esiti, vale la pena ricordarlo, come i collettivi Teatro della Ribalta, Teatro Pirata o Nèon teatro, e le esperienze performative di singoli artisti, sia nel teatro che nella danza: esperienze fattesi sempre più forti e urgenti negli ultimi anni, simbolicamente culminate con l’UBU a Chiara Bersani.

Dopo il Leone d’Argento al collettivo anglo-tedesco Gob Squad, con il loro teatro filmico e partecipato, la cerimonia del Leone d’Oro alla carriera, consegnato in chiusura di Festival domenica 30 giugno nella Sala delle Colonne di Ca’ Giustinian, è stato un momento intenso e commovente che ha mostrato come il teatro resti ancora per tantissimi anche un modo per uscire dall’isolamento e dalle condizioni più difficili, realizzando il proprio bisogno di fare arte sociale, come ha ricordato Andrea Porcheddu nel dialogo con la compagnia a fine cerimonia.
Back to Back Theatre ha conquistato le platee di tutto il mondo nell’arco di trent’anni e con oltre trenta titoli, creazioni che affrontano temi sociali, politici, filosofici mettendo in discussione la costruzione dei nostri immaginari e la nostra percezione della normalità. Un percorso costellato di premi, dall’International Ibsen Award nel 2022 all’Herald Angel Critics’ Award dell’International Edinburgh Festival nel 2014 e al Bessie Award di New York nel 2008, oltre ai tanti Green Room Awards collezionati in patria. A Venezia, e per la prima volta in Italia, hanno presentato un loro spettacolo storico, Food Court, andato in scena al Teatro Piccolo Arsenale il 28 e 29 giugno: una performance-concerto che porta lo spettatore in un ambiente problematico e oscuro.

Due performer con disabilità entrano in scena, dopo una breve ouverture eseguita da parte dei tre musicisti a cui è affidata la colonna sonora dello spettacolo. Sono in proscenio, con il sipario chiuso dietro di loro. Si dispongono per il lungo e inizia una conversazione che riguarda il corpo e le abilità. I dialoghi vengono riportati a microfono da una terza figura che va dall’una all’altra a permettere la declamazione delle battute, introducendo un elemento di finzione ma esacerbando la crudezza del dialogo, che aumenta quando entra una terza figura, una donna con importanti limitazioni di motricità.
Le due donne, pur non corrispondendo all’idea del fisico impeccabile e quindi divenendo così interpreti della medietà che appartiene a tutti, iniziano a fare oggetto la terza di un violentissimo body shaming, al quale questa risponde con il silenzio.
Si aprirà poi il sipario per portare la vicenda quasi dentro un piano psichico, ancora più scuro, fatto di proiezioni ma sostanzialmente incentrato sul rapporto vittima/carnefice, dai toni molto espliciti e offensivi, dai quali non c’è salvezza se non un ultimo sospiro affidato alla poesia, come atto di resistenza, lasciato alle parole di Emily Dickinson.
Parliamo di una creazione di poco meno di 20 anni fa: storicizzandola, si comprende benissimo come – al netto di tutti i dibattiti sulla gender equality e sull’inclusione sulle quali siamo edotti oggi anche nel mainstream – questo spettacolo dovette sicuramente essere un gesto dirompente e incredibilmente coraggioso, perché non portava l’attore con disabilità a farsi solo interprete ma a impersonare i disagi e le crudezze della propria condizione in modo trasfigurato ma esplicito.
Forse oggi – viene da dire: per fortuna! – molte questioni sono di dominio più ampio e il dibattito si è spostato qualche passo in avanti (anche se siamo ancora in difficoltà a immaginare che se abbiamo ospite un disabile occorre facilitargli l’ingresso nei luoghi, la mobilità, abbattendo le barriere); resta comunque che la società social-mediale, evochi ancora concetti di idealità dell’apparenza fisica in modo soffocante, chiedendo ai giovani una continua omologazione, schiacciando le diversità individuali e imponendo forme e stereotipie estetiche addirittura figlie del foto-ritocco più che della realtà.

Andiamo dunque al secondo evento apicale dello scorso fine settimana: con Medea’s Children Milo Rau affronta senza mediazioni il ruolo dei bambini nel teatro, partendo da uno dei uno dei suoi grandi classici, Medea, con la vicenda a tutti nota dell’infanticidio, perpetrato per vendetta contro il marito da cui la donna viene abbandonata.
L’innesco drammaturgico in questa circostanza è il legame fra il classico e un vero caso eclatante di cronaca nera occorso in Belgio: una madre disperata decise, diversi anni fa, di uccidere i suoi cinque figli e di provare poi a togliersi la vita, cosa che non le riuscì. Solo nel 2023 ebbe l’autorizzazione all’eutanasia. Nella drammaturgia i nomi reali di questo caso sono modificati ma la sfida al narrato realistico portata avanti da Rau è ben più ampia.
Il regista svizzero, noto per il suo teatro ammantato di realismo, costruito fra attorialità tradizionale e uso dei video in scena, conduce fino all’estremo una serie di scelte ardite.
Descriviamo lo spettacolo.
L’azione ha inizio con un immaginario talk post-spettacolo fra attori e spettatori di tono finanche comico, in cui uno degli interpreti principali, l’attore Peter Seynaeve, invita in scena i giovanissimi interpreti di una versione riveduta di Medea. Sono bambini non ancora adolescenti (Bernice Van Walleghem, Aiko Benaouisse, Ella Brennan, Helena van de Casteele, Juliette Debackere, Elias Maes) ma con un piglio interpretativo davvero notevole. Parlano come se noi spettatori avessimo già visto lo spettacolo e lo commentano ragionando su idee registiche e criticità interpretative, su quanto la crudezza dell’allestimento fosse filologicamente distante dalle scelte del grande tragediografo greco, che nel suo capolavoro evitò di descrivere la scena in cui Medea uccide i figli. Uno di loro chiede perché la contemporaneità senta il bisogno di modificare i testi dei grandi classici.
Poco a poco lo spettacolo diventa più aderente alla idea di rappresentazione tradizionale, i ragazzi che erano seduti in proscenio con il sipario chiuso alle loro spalle chiedono di poter reinterpretare alcune scene, per restituire l’idea di quello che era stato l’allestimento (che ovviamente non si era visto fino a quel momento, quindi con un effetto di disvelamento al contrario).
Si apre dunque il sipario e a quel punto inizia la “Medea” di Rau vera e propria, che mescola, per scene successive, la trama del classico teatrale, raccontata da interpreti e attori maturi, a quella della famiglia belga all’interno della quale matura l’orribile crimine: la ragazza che da giovane incontra all’università uno svogliato studente di origini marocchine, adottato da un uomo belga assai avanti negli anni e benestante; il rapporto fra i due uomini, l’anziano ricco e il giovane marocchino, che ha tratti equivoci, i due andranno frequentemente in viaggio da soli, lasciando la donna, nel frattempo diventata moglie e madre di cinque figli, spesso da sola.
La vicenda è registicamente sviluppata su un piano duplice: viene disvelata attraverso video affidati nell’interpretazione ad attori esperti e adulti; i bambini in scena duplicano queste sequenze in contemporanea e anche loro sono ripresi in video, come se incarnassero gli interpreti adulti che vediamo nella proiezione, ai quali in dissolvenza si sostituiscono. Tutto si intreccia con la vicenda di Medea: le aspettative, l’abbandono, la solitudine, fino al drammatico finale (drammaturgia di Kaatje De Geest).
Il regista svizzero, che anche in Five easy pieces aveva affrontato il tema della pedofilia, portando in scena dei bambini, imbocca una strada inaspettata, cruda.
Se per un’ora e dieci lo spettacolo ha un andamento tutto sommato coerente con gli stilemi dei suoi precedenti lavori, negli ultimi venti minuti Rau decide – provocatoriamente e in modo estremamente distante rispetto alla tradizione classica che tipicamente stende  sull’atto tragico il velo della pietà – di raccontare in modo iperrealistico la carneficina: le telecamere inquadrano in primo piano la ragazzina che interpreta la madre belga e che chiama uno alla volta i suoi figli (gli altri bambini), poi li ammazza uno a uno, colpendoli con un coltello e poi tagliandogli la gola da parte a parte.
È tutto finto, visto che i ragazzi attori sono davanti ai nostri occhi, ma è anche tutto estremamente realistico, nella proiezione filmica, compreso il taglio alla gola e la copiosa fuoriuscita di sangue (certo, finto). Diversi in sala sopportano a fatica la visione estremamente cruenta. Qualcuno decide di andarsene. Il primo omicidio, un soffocamento, dura veramente tantissimo e perturba gli animi in modo sconvolgente.
Si capisce subito che assisteremo alla mattanza fino in fondo e che non avremo respiro fino all’ultimo omicidio. Per altro, nell’ultimo di questi, come attestato anche dalla cronaca, la figlia maggiore – i figli furono assassinati dal più piccolo al più grande – provò a resistere e a fuggire, come testimoniano i segni di taglio che aveva sul corpo. Il regista, con un ulteriore colpo di scena, mentre la giovane ragazza cerca di fuggire alla furia omicida della madre scappando dalla stanza (in modo invisibile allo spettatore, se non fosse che tutto viene ripreso dalle telecamere) all’interno della quale, nella finzione, Rau fa intervenire l’attore adulto, che blocca la corsa verso la sopravvivenza della giovane ragazza, aiutando così la madre ad assassinarla con una coltellata in pancia, per poi finirla con lo sgozzamento finale.
Insomma, venti minuti che mettono a dura prova lo spettatore che è sì abituato alla cronaca delle violenze che bombardano i nostri sensi da mattina sera fra telegiornali e immagini raccapriccianti sui social media o sui siti di informazione che pubblicano video orribili preceduti semplicemente da un disclaimer, ma vedere dal vivo compiere questi atti strazianti, sebbene nella finzione, non è cosa facile.
Il regista avrebbe potuto chiudere qui lo spettacolo, lasciando gli spettatori effettivamente sconvolti, ma decide per un atterraggio un po’ più soft, ritornando al talk con le sedie in proscenio, a cui partecipano i bambini, questa volta insanguinati dal trucco di scena. C’è un’edulcorazione finale per smorzare la tragicità orrorifica di quanto fino a quel momento si è visto.
I sentimenti degli spettatori sono contrastanti: chi è ammirato dal piglio attorale dei ragazzi, a cui viene tributata, a fine spettacolo, una standing ovation clamorosa; chi ancora non riesce a digerire tutta quella violenza, chiedendosi se è davvero necessaria.

Questa volta il realismo ha tagliato la membrana del pudore, catapultandoci in un vero e proprio film horror, in una Wunderkammer della atrocità. Nelle informazioni che precedono la visione dello spettacolo, sul sito di Biennale Teatro che co-produce questo lavoro e di cui ospita la prima italiana, in merito alle intenzioni registiche si spiega che l’allestimento vorrebbe rispondere a domande più generiche su emozioni e sentimenti nell’età di passaggio fra infanzia e adolescenza, cercando di approfondire il ruolo dei bambini riguardo al teatro: “un’occasione per riflettere su loro stessi, sulla storia della famiglia, sul primo amore e sui primi incontri con la morte, sui desideri per il futuro e sulle paure legate alla fine del mondo che condividiamo tutti. Come affronta un bambino il divorzio dei genitori? Come affronta l’ingiustizia, la rottura di un’amicizia, lo stress della scuola? Come affronta la forza radicale di Medea o, in generale, la tragedia?”.
Ma tutto questo, in verità, si sviluppa poco nella drammaturgia. Sì, c’è una lunga parte introduttiva in cui si affronta una serie di interrogativi, fra cui alcuni di questi, ma certamente non risultano in alcun modo centrali, alla fine della visione, rispetto alle consistenze emotive che vengono sviluppate e ai nuclei di addensamento intorno ai quali si coagulano le emozioni degli spettatori.
Restano addosso i turbamenti per la vicenda dolorosissima del nostro tempo, le contraddizioni insite nelle società multiculturali, di cui sono esponenti visibili anche alcuni bambini-attori che appartengono alla seconda o terza generazione di famiglie arrivate in Belgio dei paesi del Nord Africa e probabilmente scelti non a caso per raccontare le pieghe socio-antropologiche di questa storia drammatica.
L’analisi del segno scenico ci porta però a interrogarci sulla scelta di abolire la pietà in scena, di arrivare a raccontare in forma così estrema la violenza sull’infanzia. Già Pasolini in Salò o le 120 giornate di Sodoma, nel drammatico finale in cui un giovanetto offre piacere erotico a un gerarca nazista mentre davanti i suoi occhi vengono perpetrate crudezze inenarrabili, aveva squarciato il velo sul piacere sadico della violenza.
Ma era cinema, mancava la corporeità.
Qui, sebbene non tutti gli omicidi vengano compiuti davanti all’occhio dello spettatore e la maggior parte delle immagini siano riprese solo filmicamente, certamente ci troviamo in una condizione, in una posizione, come spettatori, di attivata complicità.
Viene testata la nostra resistenza all’orrore.
Pochi fuggono, la maggioranza non solo resta, ma appena calate le luci che segnano la fine dello spettacolo, si produce in un catartico applauso liberatorio ai giovanissimi interpreti, quasi a voler chiudere la parentesi della finzione, richiamandola. L’applauso qui sembra avere una specifica funzione psicologica: porre fine all’evento crudele, sigillandolo dentro l’esperienza teatrale, di cui l’applauso è ritualmente il compimento.

Dello spettacolo si è parlato e si parlerà molto, sicuramente con toni enfatici, ma qui abbiamo preferito concentrare l’attenzione su alcuni interrogativi che riguardano la forma e il ruolo delle arti sceniche rispetto alla narrazione, nel teatro realistico o documentale contemporaneo. Rau ne è di certo un interprete: i suoi spettacoli raccontano tragedie del presente, ricollegandosi spesso ai drammi antichi, quasi a significare che i grandi temi dell’umanità non cambiano mai. E d’altronde è il motivo per cui le tragedie di 2500 anni fa vengono ancora replicate (anche integralmente e senza quasi cambiarne il testo!).
I tragediografi antichi, per un loro senso di bilanciamento nel rapporto fra narrazione e poetica, hanno però sempre scelto di non mostrare la truculenza.
Chiudo quindi la riflessione con uno scambio, per me illuminante, avuto con il collega Edgardo Bellini, acuto osservatore della scena contemporanea, che non ha potuto assistere allo spettacolo e quindi me ne chiedeva conto.
Nel leggere i miei interrogativi via Whatsapp, Bellini mi rispondeva: “Però la mia perplessità è proprio questa: il teatro greco non mette mai in scena il delitto ma lo racconta (e anche il racconto è una forma “verista”); lo spettatore si commuove e piange. A un immaginario puro, la parola basta per accendere una forte emozione. Oggi lo spettatore è desensibilizzato alla parola, e ormai anche a buona parte dell’immagine del dolore; per provocare un risultato equivalente a quello greco antico, il regista, il drammaturgo, è costretto a superare l’esperienza del segno, le immagini sanguinolente, che a mio avviso non hanno alcuna funzione provocatoria ma semmai di riposizionamento del segno rispetto al significato percepito. In venticinque secoli si è spostato significativamente lo zero, e il drammaturgo lo insegue“.
E io a questo stimolo rispondevo: ”Condivido questo pensiero e lo leggo molto nitidamente. Ma è proprio l’inseguimento dello zero il tema che pongo nella mia lettura critica. Esattamente questo”; ovvero: se lo zero del disumano si sposta, il medium scenico deve necessariamente inseguirlo? Io personalmente risponderei no.


FOOD COURT

Anno/Durata: 2008, 60’ (prima italiana)
Uno spettacolo di Mark Deans, Bruce Gladwin, Rita Halabarec, Nicki Holland, Sarah Mainwaring, Scott Price
Regia, scene Bruce Gladwin
Interpretazione Sarah Goninon, Simon Laherty, Sarah Mainwaring, Scott Price, Tamika Simpson
Musica The Necks: Chris Abrahams (piano), Lloyd Swanton (basso), Tony Buck (batteria)
Scene Mark Cuthbertson
Disegno luci, direzione tecnica Andrew Livingston, Bluebottle
Animazione Rhian Hinkley
Sonorizzazione Hugh Covill
Costumi Shio Otani
Sostitute Erin Kearns, Jessica Walker
Fonico Byron Scullin
Direttrice di scena Alana Hoggart
Assistente direzione di scena Jo Leishman
Responsabile di produzione Bao Ngouansavanh
Manager compagnia Erin Watson
Produttori Tanya Bennett, David Miller
Direzione della produzione Tim Stitz
Nota: Back to Back Theatre è sostenuto dalla Città di Greater Geelong, dal governo dello Stato di Victoria attraverso il programma Creative Victoria e dal governo australiano attraverso il programma Creative Australia

MEDEA’S CHILDREN

Anno/Durata: 2024, 90’ (prima italiana)
Con Peter Seynaeve, Bernice Van Walleghem, Aiko Benaouisse, Ella Brennan, Helena van de Casteele, Juliette Debackere, Elias Maes
Ideazione e regia Milo Rau
Drammaturgia Kaatje De Geest
Video design Moritz von Dungern
Disegno sonoro Elia Rediger
Disegno luci Dennis Diels
Scene ruimtevaarders
Costumi Jo De Visscher
Attrezzeria Joris Soenen
Produzione NTGent
Coproduzione La Biennale di Venezia, Wiener Festwochen, ITA – Internationaal Theater Amsterdam, Tandem – Scène nationale (Arras Douai)
Note: Spettacolo in olandese sovratitolato, traduzione in lingua italiana e adattamento sovratitoli di Matilde Vigna