ELENA SCOLARI | L’Enrico V di Shakespeare (titolo originale The Life of Henry the Fifth) comincia con l’esortazione del coro al pubblico a immaginare ‘le sterminate campagne di Francia e il cielo di Azincourt’ perché ‘questa platea non potrà mai contenerle nel suo ristretto spazio’, e allora ‘sopperite alle nostre deficienze con le risorse della vostra mente: moltiplicate per mille ogni uomo, e con l’aiuto della fantasia createvi un poderoso esercito’.
Immaginare. Questa è la questione, in teatro e in arte.
Del resto, alcuni secoli dopo, anche l’artista svizzero Jean Tinguely agiva e creava secondo la sua massima “Le rêve, c’est tout, la technique ça s’apprend” (trad. Il sogno, è tutto, la tecnica si impara). E qual è il compito dell’arte se non essere così forte da creare mondi, grazie all’immaginazione?
Immagina l’artista ma immagina anche lo spettatore, chi assiste a uno spettacolo come chi guarda un quadro o una scultura, chi legge un romanzo o ascolta un concerto. Questo pensa anche l’attore e drammaturgo inglese Tim Crouch, che pochi giorni fa è stato ospitato dalla Biennale Teatro 2024 – ancora diretta da ricci/forte – con Truth’s a dog must to kennel al Teatro alle Tese dell’Arsenale di Venezia, produzione del Royal Lyceum Theatre di Edimburgo.
Il titolo è una frase tratta dalla tragedia Re Lear, significa più o meno “la verità è un cane che deve essere tenuto nel canile”, sono parole pronunciate dal fool che rimprovera Lear per aver punito la giovane figlia Cordelia che è stata la sola a dirgli la verità. Crouch inserisce questo recente lavoro nell’alveo di un annoso e popolato progetto dedicato a Shakespeare in cui ha lavorato creando monologhi su alcuni personaggi del bardo, a volte secondari: I, Caliban da La tempesta, I, Peaseblossom (Fiordipisello) dal Sogno di una notte di mezza estate, I, Banquo dal Macbeth, poi I, Malvolio da La dodicesima notte e infine I, Cinna dal Giulio Cesare. Questa volta però l’intento non è solo sviluppare un singolo carattere per costruire una prospettiva nuova o laterale di opere celebri, bensì ragionare proprio sul concetto di verità, in teatro soprattutto, indagando quale sia la ‘vera’ finzione tra il recitare e il ‘rappresentare’ virtualmente. Intendiamo precisamente la cosiddetta realtà virtuale, che, in quanto tale, reale non è.
Crouch porta solo se stesso, in scena, in t-shirt e pantaloni neri, non ci sono ne’ scenografie ne’ oggetti, salvo un visore da realtà virtuale, appunto, che l’attore mette e toglie, fingendo che lì dentro si stia mettendo in scena un Re Lear. In realtà (realtà? Che bisticcio), e ce lo dirà, indossandolo non vede assolutamente nulla, finge.
Oppure è cieco come Gloucester a cui vengono cavati gli occhi: “È la piaga dei tempi quando i pazzi guidano i ciechi”.
Crouch è il fool, il matto del re che decide di andarsene dalla tragedia; e in effetti questo personaggio esce di scena senza un vero motivo prima dell’intervallo, ma nella lettura di Crouch il giullare di corte non abbandona solo la tragedia ma anche il palco e forse la vita, non trovando più senso nel teatro perché è l’arte a non avere più senso in questo mondo. Il pensiero gli è venuto riflettendo sull’idea, che ha purtroppo preso corpo durante la pandemia, che sia possibile assistere virtualmente a uno spettacolo, stando sul divano di casa, osservando la scena in video.
Ecco perché Crouch mette tutto il fuoco sul corpo dell’attore e sulla potenzialità espressa nell’atto teatrale ‘dal vivo’.
In Truth’s a dog must to kennel, quando l’attore ha il visore descrive l’azione che sta accadendo nella tragedia e quando lo toglie inventa una seconda pièce che avviene nel teatro dove siamo: indica la platea dove c’è uno spettatore annoiato, c’è una signora che dà di gomito al marito, c’è un signore che ha avuto la pessima idea di mangiare prima di entrare in sala, c’è uno scroccone che si è imbucato senza pagare il biglietto, c’è il regista, un critico. E a queste persone succedono alcuni fatti: uno (quello che ha cenato) dà prima segni di malessere e poi si sentirà proprio male, la signora ne sarà prima infastidita e poi spaventata, arriveranno i soccorsi, ecc.
All’uscita dall’Arsenale, dopo gli spettacoli e mentre ci si avvia a percorrere le calli, in quell’atmosfera sempre in bilico tra vero e sogno lagunare, ci si intrattiene a scambiare impressioni su ciò che si è appena visto con gli altri osservatori della scena presenti, tra questi chiacchiero con il collega Giambattista Marchetto che pone un punto di vista particolarmente critico sul lavoro di Crouch: “In questa operazione di destrutturazione shakespeariana, che porta alle estreme conseguenze la provocazione del Bardo sulla confusa discrasia tra illusione e (presunta) realtà, va detto che l’istrione britannico compie un’operazione riservata a chi si può avvalere di una dotazione interpretativa approfondita. Salvo apprezzarne la bravura tecnica, che emerge immediata anche nel coinvolgimento del pubblico, risulta difficile proporre a uno spettatore che non maneggi il King Lear quel filo di senso teso fino alla realtà virtuale. E forse la dichiarazione più eversiva – la tematizzazione del valore cruciale dell’arte per una società che voglia definirsi tale – finisce per arenarsi su una risacca intellettuale elitaria”.
Concordo sul fatto che nella prima parte non sia facile seguire l’altalenare delle due vicende, poi si cominciano ad avvertire i paralleli solo se si ha un’idea della trama di Re Lear, questi sono però precisi ed efficaci: Cordelia muore e Lear cerca segni di vita in lei come i paramedici intervenuti in sala cercano segni di vita nello spettatore assistito, la corona di Lear è ormai diventata larga sulla sua testa, è allentata come il collo della camicia dell’uomo viene allentato per farlo respirare.
Crouch/fool arriva alle porte del paradiso e racconta a San Pietro di aver trovato una lampada sgomberando la soffitta, la strofina e il genio che ne esce esaudirà tre desideri: il matto chiede prima di cancellare le ineguaglianze dal mondo, poi che tutti imparino a rispettare le scelte altrui. E il terzo è “uccidimi, cazzo”.
Il matto non ha più battute, ha finito gli scherzi, non ne può più di stare in quella storia.
Chiudo il mio diario dalla Biennale 2024 con le impressioni sulla mise en lecture di Così erano le cose appena nata la luce, il testo di Rosalinda Conti, vincitrice della Biennale College Teatro – Drammaturgia Under 40, che abbiamo ascoltato nella Sala d’Armi dell’Arsenale grazie all’interpretazione di Barbara Chichiarelli, Loris De Luna, Michele Eburnea, Alessandro Riceci e con la regia in nuce di Martina Badiluzzi.
Tre fratelli e una sorella sono i quattro figli di una madre prossima alla fine, sono tutti riuniti nella stessa casa, vicina a un bosco, seduti intorno a un lungo tavolo rettangolare di legno. La madre scompare, inspiegabilmente, le ricerche sono vane e cose strane cominciano a succedere: spariscono i mobili, svaniscono pezzi di casa, poi intere stanze, il bosco sembra avanzare e mangiarsi lo spazio. Sul letto vuoto della madre è comparso un grosso insetto, il cui incedere ricorda curiosamente quello della donna anziana. La sospettata metamorfosi non si ferma però alla citazione kafkiana, è più complicata, se possibile. Infatti per soprammercato l’insetto è un trilobite, estinto dall’era paleozoica; ma la trasformazione in atto coinvolge tutto: le piante stanno tornando ad avere il sopravvento, inglobano pian piano la casa e le persone. Sul balcone c’era un libro sull’estinzione della razza umana, che è esattamente ciò che sta avvenendo in questa storia.
Il lavoro è ben scritto, irreale (speriamo!) e assai inventivo, i quattro attori lo reggono piuttosto bene, soprattutto Alessandro Riceci, l’entomologo, ma il testo tende a dilatarsi nella seconda parte, con un eccesso di compiacimento nelle lunghe descrizioni di ciò che succede. Dopo il ‘colpo di scena’ sarebbe più efficace avvicinarsi prima alla chiusura, senza troppo spiegare e senza troppo aggiungere. Si reclama la presenza dell’autore nel testo ma, se tutto funziona, l’autore è il testo. E nel testo.
Questo è un racconto con un suo fascino, non privo di punti poetici come “il pozzo del futuro nelle pupille” di uno dei personaggi, e con alcune interessanti riflessioni sulla vecchiaia. È però appunto un racconto, in cui i caratteri parlano molto e agiscono poco; questo si spiega – in parte – con l’amore per Cechov dichiarato da Conti ma per giustizia verso il drammaturgo russo va detto che c’erano moltissima azione interiore e passione per la vita nell’apparente fissità dei suoi personaggi.
Nell’incontro post-spettacolo coordinato da Andrea Porcheddu, la regista Badiluzzi ha parlato di “disfacimento della parola” ma in realtà qui la parola rimane regina, è la sola cosa di cui le quattro figure sono armate. Sarà interessante vedere di quali altri strumenti saranno dotati gli interpreti nell’allestimento finale dello spettacolo che si potrà vedere nella Biennale 2025.
TRUTH’S A DOG MUST TO KENNEL – prima nazionale
scritto e interpretato da Tim Crouch
coregia Karl James, Andy Smith
musica, sound design Pippa Murphy
disegno luci Laura Hawkins
organizzazione Brian Ferguson, Adura Onashile
responsabile di produzione Craig Fleming
produzione The Royal Lyceum Theatre, Edinburgh
COSÌ ERANO LE COSE APPENA NATA LA LUCE – mise en lecture
testo Rosalinda Conti, vincitrice Biennale College Teatro – Drammaturgia Under 40
regia Martina Badiluzzi
con Barbara Chichiarelli, Loris De Luna, Michele Eburnea, Alessandro Riceci
musiche dal vivo Daniele Gherrino
aiuto regia Giorgia Buttarazzi
produzione La Biennale di Venezia
coproduzione Cranpi
Biennale Teatro, Arsenale di Venezia | 26/27 luglio 2024