ILENA AMBROSIO | In uno splendido saggio contenuto nella raccolta Letteratura come itinerario nel meraviglioso (Einaudi, Torino 1968) Angelo Maria Ripellino descrive il corpus di Anton Čechov come un universo unico fatto di continui ritorni di temi, dettagli, di tipi umani: ne discute, così, i singoli drammi passando dall’uno all’altro senza soluzione di continuità, in un flusso continuo.
Ad assistere alla trilogia che compone il Progetto Čechov di Leonardo Lidi – presentato per intero al Festival di Spoleto 67 – si ha la medesima impressione di continuità e organicità: gli allestimenti di Il Gabbiano, di Zio Vanja e del debuttante Il giardino dei ciliegi, pur nell’estetica precipua e specifica di ciascuno, rappresentano con evidenza un percorso unitario dentro l’opera di Čechov, ma anche e soprattutto dentro un intento etico ben definito: interrogarsi sul teatro, su cosa è oggi, su cosa potrebbe o dovrebbe essere; e farlo con la materia prima umana di cui il teatro si compone: gli attori. La Trilogia di Lidi è, attraverso la parola di Čechov, un grande omaggio al lavoro dell’attore e, insieme, un’analisi lucida e disincantata del teatro.
Abbiamo voluto confrontarci con il regista per farci dare le coordinate di questo percorso.
In primis, come è nato il Progetto?
L’idea è nata subito dopo il primo lockdown quando ci si domandava come ripartire e quando il Direttore dello Stabile dell’Umbria, Nino Marino, mi chiese di presentare un progetto triennale.
Alla base c’è stata da subito una mia specifica volontà, quella che il progetto si basasse sugli attori; volevo creare un’azione politica che dichiarasse questa intenzione. Da qui dodici attori, sempre gli stessi, per tre anni, per tre spettacoli. L’intento era di porre attenzione a una categoria che in quel momento veniva trascurata. In quel periodo molti attori si sono sentiti l’ultimo pensiero della società e della politica; c’è chi ha reagito con tavole rotonde, chi fondando Associazioni, chi cercando un confronto con le Istituzioni… io mi sono rintanato nello studio dei classici e ho pensato di reagire nella pratica teatrale.
Ecco, i classici. Perché proprio Čechov? E perché proprio questi tre titoli?
Čechov a mio avviso è l’autore che sottolinea di più la centralità degli attori, soprattutto se si pensa di lavorare in compagnia. Questo perché la sua scrittura non sviluppa protagonismi, regala all’attore una luce particolare, ma sempre all’interno di un pensiero di collettività: non c’è mai un protagonista, ma sempre una società, una struttura complessa. Ecco, mi interessava analizzare una società di attori.
Così, per prima cosa, ho messo insieme attori molto diversi per esperienza, per percorso ed età anagrafica: c’è chi viene dall’avanguardia, chi dalla scuola di Ronconi/Castri, chi da quella di Leo de Berardinis; ci sono i miei coetanei, nati nel precariato e che quindi hanno fatto un po’ di tutto per esserci e resistere; poi ci sono i più giovani che hanno iniziato adesso… Insomma ho voluto, con il teatro di Čechov, creare una società teatrale che fosse rappresentativa del sistema italiano dal punto di vista degli attori.
Per quanto riguarda i titoli, c’è stata, prima di tutto, una questione pratica ossia la possibilità per tutti e tre di fare un lavoro con la stessa compagnia.
Ma fondamentale è stata anche una questione di tipo teorico.
Il gabbiano è il primo: subito dopo la pandemia ritenevo necessario interrogarsi sulla forma: come rientriamo a teatro? Quale forma e quale vestito indossiamo per ripresentarci al pubblico? Quello della trama o il simbolismo? Un teatro più impattante, ma meno comprensibile come quello di Konstantìn o un teatro delle storie, che si avvicina più al cinema, come quello della scrittura di Trigòrin?
Zio Vanja, per me, è un testo che parla dell’ininfluenza, di persone che non impattano o sentono di non impattare sul proprio pianeta, sul proprio lavoro, sulla propria vita. Quindi, rispetto a una compagnia di attori, la questione da porre è: quanto ci sentiamo ininfluenti rispetto a un sistema teatrale che sembra poter fare a meno di noi? Esistiamo ancora per il teatro, per il pubblico?
Il giardino dei ciliegi, infine, è una grande metafora dell’inutilità di questo teatro che, come il giardino, non è più utile a livello produttivo perché i ciliegi non maturano più, perché maturano ogni due anni e allora la scorciatoia sembra privatizzare o vendere per utilizzare il luogo in modo usa e getta.
Per ciascuno, dunque, una ben precisa motivazione politica che si traduce anche nelle scelte relative alla messa in scena.
Certo. La scena di Il Gabbiano è quasi classica: uno spazio vuoto, costumi di inizio secolo; poi Zio Vanja con tutti i personaggi, in abiti di metà secolo, fissi su una parete di legno grigio; per poi arrivare a Il giardino con costumi di fine secolo e scene di plastica, come se ci fosse un grande sacco per l’immondizia a racchiudere tutta la compagnia che si sente abbandonata da chi, invece, dovrebbe tutelarla.
Ci hai parlato del lato politico di questo progetto, ma il lavoro che hai fatto sugli attori sembra essere stato molto intenso anche dal punto di vista artistico. Gli interpreti sono portatori di una serie di inclinazioni della voce, di gesti, di movenze molto precise, che riescono a conservare o a lasciar andare di spettacolo in spettacolo. Come siete arrivati a questo tipo di completezza e complessità interpretative?
Il lavoro è stato molto faticoso, nel senso bello del termine: con gioia ciascuno di loro ha dato tutto dall’inizio alla fine, hanno preso sulle spalle la responsabilità dei ruoli e del progetto come un vero ensemble.
Ma tutti i dettagli che hai notato sono anche il frutto di una cosa e cioè delle repliche: gli interpreti, per tre anni, hanno avuto la possibilità di abitare il palcoscenico con costanza e di sentirsi davvero una compagnia. Questo deve farci riflettere sul fatto che non si può continuare la politica usa e getta per la quale fai uno spettacolo di due settimane e poi si vede. Bisogna prendersi la responsabilità di puntare su alcuni artisti, di fare delle scelte; questo è il motivo per il quale ci sono i direttori artistici.
Deve essere l’attore il tramite tra teatro e spettatore, ma non si può pensare che gli attori possano crescere in modo importante senza una palestra costante; lo stesso vale per i registi, per i drammaturghi… non è così che si coltiva un terreno fertile. Il terreno è arido e le cose non possono che svilupparsi a metà.
Allora il progetto Čechov deve raccontare anche questo: che, nonostante le difficoltà della politica del teatro italiano, si può costruire, basandosi sui bravi attori e non sulle trovate, sul nome di fama, non sfruttando l’occasione televisiva, il testo riconoscibile, perché tratto da un best seller. Bisogna costruire in maniera logica e con costanza e credendo nella forza del teatro. E questo si fa con gli attori.
Ho notato che la tua regia tende spesso a bloccare il trasporto dello spettatore, come a volergli impedire di mettersi troppo comodo. In relazione anche alla riflessione politica di cui si fa portatore il progetto, che tipo di ruolo ha, per te, il pubblico?
Fondamentale, tutto è pensato per lo spettatore, dal cast e dalla scelta dei testi in poi: scelgo sempre testi che in quel momento possono parlare allo spettatore. Il pubblico e la sua relazione con l’attore sono sempre la priorità, ma ciò non vuol dire essere accomodanti nei suoi confronti: il bene dello spettatore non si cerca rendendogli la vita troppo facile, ma cercando una connessione, cercando un dialogo e il dialogo, a volte, può essere anche spigoloso e fastidioso, ma deve essere sempre vivo.
Sono sempre più convinto che il pubblico venga trattato meno bene di come si merita, nel senso che si prendono decisioni per il pubblico come se non fosse in grado di leggere altri codici ed è assurdo, anche perché nella velocità della tecnologia scopriamo che le persone sono sempre più attente ai nuovi codici, anche complessi. In questo modo, d’altro canto, si crea un pubblico che chiede la semplificazione… sta diventando un cane che si morde la coda. Allora meglio qualche “no” in più, ma che siano “no” che hanno e creano un punto di vista. È importante non avere con lo spettatore un dialogo banale o “televisivo”; è importante che questo in teatro non avvenga, ma che ci sia sempre la volontà di fare un’esperienza di conoscenza.
Durante una delle ultime repliche ho detto ai miei attori: permettete allo spettatore di conoscere chi sta sul palcoscenico. Questo per dire che, se sei al bar con un amico e, con il cuore in mano, gli racconti un’esperienza, l’amico difficilmente guarderà il telefonino. Lo stesso bisogna fare con gli spettatori: se racconti un’esperienza con sincerità, difficilmente lo spettatore guarderà il telefonino. Noi non dobbiamo imporre di spegnere i telefoni, dobbiamo fare in modo che il dialogo sia sincero e che non si senta il bisogno di guardarli.
Come pensi che il sistema teatrale possa arrivare a creare una condizione così fruttuosa?
Dipende tanto dalla proposta culturale del teatro; il pubblico si crea con le scelte artistiche, essendo rigorosi, precisi e coerenti, per questo il ruolo dei direttori artistici è fondamentale ed è necessario interrogarsi su chi sono e su come svolgono il loro lavoro.
E in questo anche la critica deve tornare a essere più forte: non deve venir meno il racconto coerente e rigoroso anche se duro… Noi abbiamo molto bisogno della critica in questo momento. Io preferisco critiche negative, ma di forza e con un pensiero netto, rispetto una critica positiva, ma leggera e superficiale. Oggi la critica dovrebbe, secondo me, avere la forza e la capacità di dire se un teatro non sta facendo bene il suo lavoro, di dire cosa significa e di farlo con forza.
Chi ama ancora il teatro deve trattarlo come si fa con un innamorato: deve averne cura, ma se trattano male il tuo amore devi anche reagire.
IL GABBIANO
regia Leonardo Lidi
con Giordano Agrusta, Maurizio Cardillo, Ilaria Falini, Christian La Rosa, Angela Malfitano, Francesca Mazza, Orietta Notari, Tino Rossi, Massimiliano Speziani, Giuliana Vigogna
scene e luci Nicolas Bovey
costumi Aurora Damanti
musiche e suono Franco Visioli
assistenti alla regia Noemi Grasso
produzione Teatro Stabile dell’Umbria, ERT / Teatro nazionale, Teatro Stabile di Torino – Teatro Nazionale
in collaborazione con Spoleto Festival dei Due Mondi
ZIO VANJA
regia Leonardo Lidi
con Giordano Agrusta, Maurizio Cardillo, Ilaria Falini, Angela Malfitano, Francesca Mazza, Mario Pirrello, Tino Rossi, Massimiliano Speziani, Giuliana Vigogna
scene e luci Nicolas Bovey
costumi Aurora Damanti
suono Franco Visioli
assistente alla regia Alba Porto
produzione Teatro Stabile dell’Umbria
in coproduzione con Teatro Stabile di Torino – Teatro Nazionale, Spoleto Festival Dei Due Mondi
IL GIARDINO DEI CILIEGI
regia Leonardo Lidi
Personaggi e interpreti
Ljubov’ Andreevna Francesca Mazza
Anja, sua figlia Giuliana Vigogna
Varja, sua figlia adottiva Ilaria Falini
Lenja Andreevna, sorella di Ljubov’ Orietta Notari
Ermolaj Alekseevic Lopachin Mario Pirrello
Peter Sergeevic Trofimov Christian La Rosa
Boris Borisovic Simeonov-Piscik Giordano Agrusta
Charlotta Ivanovna Maurizio Cardillo
Semen Panteleevic Epichodov Massimiliano Speziani
Dunja Angela Malfitano
Firs Tino Rossi
Jasa Alfonso De Vreese
scene e luci Nicolas Bovey
costumi Aurora Damanti
suono Franco Visioli
assistente alla regia Alba Porto
produzione Teatro Stabile dell’Umbria
in coproduzione con Teatro Stabile di Torino – Teatro Nazionale, Spoleto Festival dei Due Mondi
Festival dei Due Mondi – Spoleto | 7 luglio 2024