GIORGIA VALERI* | Tante sono le leggende che si nascondono tra le pieghe morbide delle colline marchigiane: le mura medievali dei paesini arroccati sulle alture custodiscono secoli di storia e di folklore, che risalgono persino all’epoca preromana e si perdono nella notte dei tempi. Sebbene protagoniste indiscusse siano la Sibilla degli Appennini e le sue adepte, ce un racconto uno che sfugge al paganesimo tardo romano e si rifà alla tradizione proto cristiana: Lucio Ginesio, attore, mimo e musico di alto lignaggio, specializzato soprattutto nello sberleffo dei primi cristiani, in una delle sue ultime rappresentazioni si rifiutò di parodiare la cerimonia del battesimo e si mise a recitare il Credo con commozione. Venne subito torturato e giustiziato dall’imperatore Diocleziano, guadagnandosi così la santità e il titolo di protettore degli attori. Risalendo poi lungo il pendio scosceso di secoli di storia, alle pendici troviamo anche macerie molto recenti, datate 26 agosto, 24 e 30 ottobre 2016: il terremoto con epicentro Amatrice-Norcia-Visso, che ha messo in ginocchio 41.000 persone, ha colpito duramente anche la cittadina dedicata al Santo protettore degli attori, San Ginesio, rendendola per troppo tempo una carcassa disossata.
Per la quarta edizione del GinesioFest e per la terza a conduzione artistica del coordinatore didattico della scuola del Teatro Stabile di Torino, Leonardo Lidi, i pezzi solitari di questa storia plurisecolare hanno trovato nuova forma e corpo, restituendo ancora una volta al Borgo degli Attori un festival diffuso tra i vicoli e le piazze della città. Quest’anno più che mai, il mestiere dell’attore, come condizione sociale ancor prima che artistica, si è fatto protagonista indiscusso della scena: otto sono stati i monologhi selezionati per gli spettacoli serali e quindi otto gli attori coinvolti nella messa in scena. O meglio, sarebbero dovuti essere otto, se non fosse stata per la defezione causa Covid di Valerio Aprea, che avrebbe dovuto aprire il Festival con il reading Aspettando l’Apocalisse, scritto per lui da Makkox.
A sostituirlo quindi in prima serata Senza un motivo apparente, di e con Christian La Rosa. Come detto, San Ginesio si trova alle pendici dei Sibillini, su un’altura dove l’aria si irrigidisce presto e per un momento, benché sia il 18 agosto e nel resto d’Italia si consumi un’estate torrida, si percepiscono i primi spifferi dell’autunno. Lo spettacolo viene quindi spostato all’interno dell’Auditorium Sant’Agostino. Luci accese, palco scarno su fondale bianco, per incorniciare lo spazio teatrale all’interno dell’ex chiesa del XII secolo. La Rosa entra dal fondo e, manifestando subito l’iscrizione tra le fila del teatro di narrazione, attraversa il corridoio centrale verso l’altare ricordando la percezione infantile del proprio luogo natio, Saluzzo, una piccola cittadina in provincia di Cuneo: «In quella provincia tutta portici e geometrie, la provincia pacifica e tranquilla dove nulla succede, in quella provincia molti fiati hanno fatto un vento». Sebbene quella provincia sia lontana, anche anagraficamente, perchè La Rosa ci porta indietro di 37 anni, in uno dei periodi più bui della storia italiana, quello che ci racconta è metafora tutta italiana della condizione del nostro Paese. L’omicidio a stampo mafioso del Dottor Amedeo Damiano, raccontata in Omicidio in danno del dottor A. di Sergio Anelli, ricorda come ancora oggi esistano storie di serie A e storie di serie B.
Il monologo procede a ritmo serrato, dettato soltanto dai cambi di voce repentini di La Rosa. I termini tecnici giuridici talvolta sono difficili da digerire, soprattutto se a sostegno non ci sono troppi rimandi concreti alla persona, oltre che al personaggio del dottore. Ma la plasticità espressiva e corporea di La Rosa è precisa, ci trascina nella narrazione e ci respinge, ci invita a forzare le resistenze interiori verso una storia che parla a ognuno di noi, con la propria provincia d’appartenenza. È una storia di solitudine: quella di un uomo che ha speso la propria vita nel tentativo di applicare la nuova riforma sulla sanità pubblica e al quale sono state tranciate letteralmente le gambe. La solitudine anche di una vicenda il cui eco mediatico non ha avuto pareti abbastanza solide da poter fare da cassa di risonanza, perdendosi nella valle dell’oblio collettivo.
Nel solco della solitudine si inserisce anche il secondo spettacolo scelto da Lidi, Piccoli Miracoli di Paolo Nani. Se quella del Dottor A. è stata forzata e costretta, la solitudine del personaggio di Nani è scelta, cercata. Il vento è mite, la serata piacevole. Si ritorna nel Chiostro Sant’Agostino, dove il palco è allestito con un tavolo decentrato sulla sinistra, su cui campeggiano un palloncino bianco, qualche penna e una tavola da disegno che proietta il proprio contenuto sullo schermo retrostante. Tutto il resto è una grande poesia: Nani non pronuncia una singola parola per tutta la durata dello spettacolo. Lui disegna, noi immaginiamo. Un esercizio teatrale come pochi ne sono rimasti, dove l’impeccabilità mimica e clownesca di Nani, sua cifra stilistica, si adegua in maniera sorprendente alle arti visive. Si sentono bambini ridere tra il pubblico: la semplicità della storia è direttamente proporzionale all’universalità del linguaggio con cui viene raccontata, dove anche la musica e i rumori di sottofondo entrano a pieno titolo nel contenuto scenico. Nani fa regredire a uno status fanciullesco, permettendo così allo stupore e alla genuinità dell’approccio al teatro di ritrovare spazio nel pregiudizio intellettuale e razionale.
Compiendo un salto temporale verso le penultime due serate del festival, Lidi ci costringe alla comparazione stretta fra due grandi attrici del teatro e del cinema italiano: Eleonora Danco, in una riduzione dei suoi due cavalli di battaglia Me vojo sarvà e Nessuno ci guarda, e Lucia Mascino in Smarrimento, scritto e diretto da Lucia Calamaro.
Se per Danco la scenografia è pressoche inesistente, un leggio posto al centro del palco, a malapena illuminato da una retroluce fioca e giallognola, per Mascino è in pompa magna: un appartamento completamente arredato di mobili bianchi, scaffali bianchi, persino libri bianchi. Due pagine da scrivere di una stessa partitura solipsistica: Danco, sciatta, vestita con abiti larghi, parka verde oversize e jeans morbidi, si posiziona davanti al leggio, sfogliandolo nervosamente e buttando tutte le pagine a terra. Mascino veste, ça va sans dire, completamente di bianco, i capelli raccolti in un crocchio disordinatamente snob e una sigaretta (bianca) tra le mani. Danco comincia la propria danza linguistica in romanaccio facendo percepire il disagio, stavolta non di una periferia qualunque, ma quella di Roma, dove le storie si consumano confuse e disordinate tra i calcinacci cadenti dei grandi palazzoni. Siamo spettatori di personaggi kitsch, burini e cafoni, ma che non hanno nulla da invidiarci. Anzi, si arrabbia Danco quando tra il pubblico vede la retroilluminazione dei cellulari. Siamo con lei, ci trascina dentro i suoi gesti nervosi, la narrazione corporea che mai si snatura in artificio teatrale ma si trasforma in una composizione visiva a compendio delle lunghe liste di parole che pronuncia impeccabilmente tra italiano e romano.
Mascino sembra invece uscita da un romanzo: ci guarda, ci dice «per me non esiste il pubblico, esiste lo spettatore singolo». Si aggira nella stanza leggiadra, lieve, come il suo personaggio, che nella sua inconsistenza è totalmente tangibile. Uno involucro di vetro soffiato pieno di fumo bianco. Una scrittrice che, non più in grado di portare avanti i propri scritti, viene costretta dagli editori a fare una serie di conferenze per tappare i buchi produttivi. Il passaggio dal suo personaggio di finzione Anna al marito Paolo è segnato dal magistrale cambio di voce commentato da gelatine di diverso colore. Le argute riflessioni in chiave autoironica sui nuovi inizi di Mascino, contrapposto alla riflessione sui condizionamenti interiore di Danco regalano un quadro di poliedriche solitudini esistenziali, che nel racconto del festival trovano giustificazione e forza nel panorama resiliente della cittadina marchigiana.
GinesioFest si riconferma un baluardo per l’arte teatrale, in particolare quella attoriale. Leonardo Lidi eccelle nelle sue scelte artistiche, portando sul palcoscenico monologhi tanto noti quanti fondamentali per raccontare la solitudine umana come quella degli artisti, che spesso vivono sulla soglia della precarietà e dell’attesa, senza la tipica retorica perbenista degli intellettuali egoriferiti e arroccati sulle torri d’avorio della cultura. A San Ginesio il teatro si fa strumento per l’arte al servizio della comunità, in grado di abbracciare strutture, forme e persone nella reciprocità dello scambio attore-spettatore. L’impressione è quella di essere stati parte di un progetto che ogni anno cresce a dismisura, incontrollabile e potente, in grado di smuovere spettatori, ragazzi, bambini e adulti verso un paesino ormai dato per spacciato, ma che, proprio grazie all’istituzione del festival, ha trovato la forza di rinascere.
SENZA MOTIVO APPARENTE
di e con Christian La Rosa
Tratto dal libro “Omicidio in danno del dottor A.” di Sergio Anelli
Collaborazione ai testi Camilla Bassetti
PICCOLI MIRACOLI
di e con Paolo Nani
drammaturgia Gitta Malling
scene e costumi Julie Forchhammer
light design Erik S. Christoffersen / Jens Roselund Petersen
costumi Lene Beck Nielsen
Assistente alla regia Clara Luna M. Nani
regia Frede Gulbrandsen
produzione AGIDI
ME VOJO SARVÀ – NESSUNO CI GUARDA
di Eleonora Danco
musiche scelte da Marco Tecce
costumi Marisa Di Mario
disegno luci e regia Eleonora Danco
produzione La Fabbrica dell’Attore – Teatro Vascello
SMARRIMENTO
uno spettacolo scritto e diretto da Lucia Calamaro
per e con Lucia Mascino
scene e luci Lucio Diana
costumi Stefania Cempini
produzione Marche Teatro
GinesioFest, San Ginesio (MC) | 18 – 25 agosto 2024
* PAC LAB è il progetto ideato da PAC Paneacquaculture, anche in collaborazione con docenti e università italiane, per permettere il completamento e la tutorship formativa di nuovi sguardi critici per la scena contemporanea e i linguaggi dell’arte dal vivo. Il gruppo di lavoro di Pac ne accoglie sul sito gli articoli, seguendone nel tempo la pratica della scrittura critica.