FRANCESCA POZZO* | Ogni luogo è un teatro, festival che da quattro anni anima Vercelli, nel suo nome racchiude una missione: un teatro povero, accessibile a tutti, che possa uniformarsi alla città, permettendo sia a chi viene sia a chi la abita di viverla secondo un punto di vista diverso. Nata dopo la pandemia su iniziativa del Teatro di Dioniso, Cuocuolo/Bosetti e Arte in Scacco, la rassegna va controtendenza, contrastando l’isolamento e la solitudine e riportando il pubblico e gli artisti sullo stesso piano, in una dinamica di vero e proprio incontro.
Vengono infatti predilette ambientazioni intime, un numero ridotto di spettatori e ambienti che nella vita di tutti i giorni ricoprono altre funzioni. E su questi presupposti è stato possibile osservare tanta creatività: le famose ring light da influencer di Instagram sono diventate aureole e collari, piccoli proiettori hanno raddoppiato gli spazi, trasformandoli a seconda dell’occorrenza. Insomma, pochi elementi sono stati in grado di veicolare atmosfere e di creare quel sottile velo di inquietudine che è stato il filo conduttore degli spettacoli dal 12 al 14 settembre 2024.
Il mio soggiorno si apre con Lilith, testo scritto da Rita Frongia e interpretato da Angela Antonini. La “vera” prima donna, la tanto temuta, la tanto odiata, si mette a nudo, riappropriandosi della propria narrativa. Emerge così una creatura rivoluzionaria, scomoda, ma anche fragile nel suo ritrovarsi sola e rifiutata. Si fregia dei suoi epiteti, di ciò che gli altri dicono di lei, e nel luccichio delle paillettes di cui è vestita, con il trucco sbavato e un pappagallo fra i capelli, evoca la notte nel deserto, quella della sua cacciata.
Antonini e Frongia operano così una raffinata analisi dell’archetipo, lavorando sulla risata femminile, quella sguaiata e liberatoria, che scuote e terrorizza. E si soffermano sul corpo tanto demonizzato dalla religione: la rotondità delle ring light diventa un ventre gonfio, il microfono da karaoke stretto fra le gambe una grande clitoride. Perché il femminile oscuro è carne che accoglie, carne che trattiene: lo ricorda la voce robotica di Antonini nella sua lingua arcana, quando la luce dietro di lei si illumina di rosso, conferendole un’aura diabolica.
Il giorno dopo Frongia continua a essere presente, stavolta in compagnia di Luca Stetur e Alessandro Sesana, con Macbeth. L’ultimo sguardo. L’originale viene intervallato da parti riscritte, moderne, e anche in questo caso lo scarso materiale presente sul palco viene sfruttato al massimo. Una sediolina, un leggio, una lampada e un sound design che con pochi effetti riesce ad accompagnarci nel nucleo della tragedia, in quella sospensione fra vita e morte che il protagonista abita.
La tana di Teatrino Giullare invece si ispira all’immaginario di Kafka, in particolare all’omonimo racconto e ai diari personali dello scrittore. Negli spazi interni dell’ex chiesa di Santa Chiara, lo spettatore viene accompagnato di stanza in stanza, dove l’oscurità fisica si trasforma ben presto in un’ossessione della mente. Il primo impatto è quello uditivo: un ronzio, piccolo e insistente. Di fronte a noi c’è solo un tavolo, un cestino e un cappello che sembra riposare, dimenticato, a terra. Lo fissiamo e ci rendiamo conto che si muove, così come la carta che nel bidone si accartoccia piano, come se stesse respirando. Rimaniamo e già si inizia a percepire un malessere, lo spettacolo sta distorcendo le nostre percezioni, facendoci perdere i punti di riferimento.
Il tema centrale della pièce è la casa. Casa come parete, come prigione e limite per proteggerci da ciò che sta al di fuori. Nel primo “quadro” troviamo Enrico Deotti nel ruolo di una talpa che, barricata dietro a ciarpame e cose dimenticate conduce la sua battaglia contro il mondo di fuori. Questo architetto del sottosuolo con le sue unghiette scava, costruisce, ossessionato da un rumore, un pericolo che non sa definire. La ripresa del racconto kafkiano – il secondo più lungo dopo La metamorfosi – è fedele, ma la performance, data la ristrettezza del luogo e l’impedimento della barricata, non può avvalersi del movimento necessario per mantenere l’attenzione.
Quando cambiamo sala, si insinua un dubbio: fra di noi potrebbe esserci un attore e, non essendoci uno spazio scenico definito, chi si stacca dal pubblico viene guardato con sospetto. Ci ritroviamo in quello che sembra un salotto, il pupazzo di un cane, che inizialmente sembra solo un oggetto scenico, si rivolge a noi, interrogandosi su quale tana stia difendendo, se la propria o quella del padrone.
Un altro cambio di location e incontriamo la prima presenza umana, Giulia dall’Ongaro, che legge le lettere indirizzate a un amico: ha trovato una cicogna e le ha insegnato a volare, sperando che prima o poi potesse portarla via di lì. Dalle viscere della terra concettualmente saliamo fino al cielo, e l’ultimo personaggio che incontriamo è lo scrittore stesso, seduto di spalle, con il volto coperto e in testa il cappello che abbiamo notato all’inizio. Scrive e scrivere è la sua prigione, la macchina batte i tasti da sola: è lui ad accompagnarci all’uscita, permettendoci di riveder le stelle. Ci ritroviamo nuovamente fuori, rimescolati interiormente, il proposito di suscitare una reazione emotiva è sicuramente riuscito. Però rimane una domanda: quanto il nostro turbamento deriva dai temi trattati, dal rapporto con gli attori e quanto invece è frutto di una abile costruzione che ha manipolato i nostri sensi?
Il mio viaggio si conclude con Alcune cose da mettere in ordine – Interior, scritto da Angela de Matté e Roberta Dori Puddu e diretto da Renato Cuocolo e Rubidori Manshaft. L’ambientazione anche in questo caso gioca un ruolo cruciale: siamo a casa dell’attrice, in una stanza piena di scritte. Le pareti sono popolate di parole, segni, le sedie sono disposte in modo da creare l’illusione di essere in una sala d’attesa. Semanticamente la narrazione si rifà proprio a questo: all’aspettare e all’affidare la propria memoria ai segni fisici, a ciò che ci rimane attorno. La drammaturgia svolge con efficacia un compito difficile, quello di assumere il punto di vista di un malato di Alzheimer, con le sue crisi di rabbia, gli spaesamenti e i ricordi che affiorano in tutta la loro violenza. Man mano la donna si spoglia, rimanendo nella nudità metaforica del suo abito color carne. E più va avanti, più di lei rimangono solo gli oggetti, forieri di significato, in una sorta di Pompei del ricordo esemplificata da calchi di mani lasciati su un tavolo. Cuocolo ce li mostra, uno a uno, nel tentativo di fermare l’attimo, il gesto: le ultime cose che rimangono di una persona.
LILITH
testo di Rita Frongia
con Angela Antonini
luci di Antonella Colella
in collaborazione con Teatro Metastasio/Festival Contemporanea
MACBETH. L’ULTIMO SGUARDO
Compagnia47
dal testo di William Shakespeare
di e con Luca Stetur
testi di Rita Frongia
sound live Alessandro Sesana
LA TANA
Teatrino Giullare
dai racconti di Franz Kafka
con Giulia dall’Ongaro, Enrico Deotti
con il sostegno di Regione Emilia Romagna
ALCUNE COSE DA METTERE IN ORDINE (INTERIOR)
drammaturgia di Roberta Dori Puddu e Angela Demattè
con Roberta Bosetti
regia Renato Cuocolo/Rubidori Manshaft
produzione Officina Orsi (CH)
Teatro di Dioniso
FIT Festival Internazionale del Teatro e della scena contemporanea (CH)
12 -14 settembre 2024, Vercelli
* PAC LAB è il progetto ideato da PAC Paneacquaculture in collaborazione con docenti e università italiane per permettere la formazione di nuove generazioni attive nella critica dei linguaggi dell’arte dal vivo. Il gruppo di lavoro di Pac accoglie sul sito le recensioni di questi giovani scrittori seguendone la formazione e il percorso di crescita nella pratica della scrittura critica.